Per la prima volta al cinema in Italia, dal 4 al 10 dicembre, L’uovo dell’angelo è un film ricchissimo di riferimenti, anche cinematografici.
Sono passati quarant’anni esatti da quando il Maestro Mamoru Oshii regalò al mondo una delle opere (anime e non) più ammalianti ed escatologiche nella storia dell’umanità. Quell’opera è L’uovo dell’angelo, con cui Oshii apre a una nuova fase della sua carriera, lontano dai lavori su commissione portati avanti fino a quel momento nel campo dell’anime mainstream (Yattaman, Belle e Sebastien, Lamù), per concentrarsi sulla costruzione di un immaginario sfaccettato come pochi altri. Ora, L’uovo dell’angelo arriva nei cinema italiani per la prima volta dal 1985, in un’edizione restaurata in 4K che trovate in sala dal 4 al 10 dicembre. Tanto abbiamo aspettato. Ma a distanza di quarant’anni, ancora si discute sui suoi significati.
L’uovo dell’angelo vede l’incontro fra una bambina e un ragazzo sullo sfondo di un mondo rovinato, a metà fra il gotico e il fantascientifico. Lei cova un uovo di origine incerta, lui viaggia a bordo di carri armati tentacolari e porta in spalla un’arma a forma di croce. Poche parole, innumerevoli riferimenti filosofici, biblici e allegorici. I due rappresentano forse la contrapposizione sempiterna fra luce e oscurità, fra vita e morte, fra continuazione della specie e distruzione bellica? Probabilmente tutte queste cose insieme, ma una risposta ultima non ci sarà mai, perché lo stesso Mamoru Oshii non ha mai saputo darsela.
Quel che è certo, è che si potrebbero passare altri 40 anni a dissezionare questo capolavoro sconfinato in ogni sua tavola, trovandovi sempre nuovi riferimenti e suggestioni. Non ultimo, riferimenti e suggestioni ad altri media, al cinema di ogni tempo, anche non ascrivibile all’animazione giapponese. L’uovo dell’angelo è uno di quei film capaci di condensare e precorrere (più o meno dichiaratamente) innumerevoli opere prodotte dall’intelletto umano. Basti pensare ai riferimenti pittorici del surrealismo belga e spagnolo nelle persone di René Magritte e Salvador Dalí. Ma qui ci limiteremo al cinema e un po’ di letteratura.

L’uovo dell’angelo è quasi un film muto. E allora partiamo da questo capolavoro del cinema muto che gettò le fondamenta di tutto. Il gabinetto del Dottor Caligari rimane, nonostante l’evidente distanza tecnica e scenografica, un film di modernità assoluta. Anticipa il tema del doppio, di un mondo simulacro che cela una realtà nascosta, immagine questa al centro del racconto di Oshii. Ma soprattutto, è una delle opere simbolo dell’espressionismo tedesco. Nessuno ha saputo mettere in scena i giochi di ombre creati dalla notte tra i vicoli di un borgo, come ha saputo fare Robert Wiene. Nessuno, finché Mamoru Oshii non ha acceso un piccolo, angelico puntino di luce nell’oscurità di una città fantasma.

Altro capostipite dell’espressionismo tedesco, Fritz Lang gira un film che, a quasi cent’anni esatti dal 1927, non si è ancora del tutto compiuto nelle sue profezie. Quanti altri film potete citare, capaci di continuare a disvelare la loro attualità anche a distanza di un secolo? Antesignano del cyberpunk di William Gibson in questo ritratto della città di sopra e di sotto, Metropolis anticipa invenzioni semplicemente inimmaginabili per l’epoca, dalla robotica all’Intelligenza Artificiale. Ma è anche un film calato perfettamente nel suo tempo, tragedia marxista sull’evoluzione della scienza e dell’industria e sull’alienazione che questa genera nel rapporto fra l’uomo e il suo scopo. Dai fischioni a vapore ai pescatori di marmo, L’uovo dell’angelo sembra richiamare più di un’inquadratura delle fabbriche di Metropolis, con i suoi operai senza volto.

L’uovo dell’angelo è un film disseminato di riferimenti diretti al Vecchio Testamento, in particolare al Diluvio Universale. E quale miglior film di uno dei più grandi peplum e kolossal biblici nel cinema hollywoodiano degli Anni ’50, nonché uno dei pochi casi in cui un regista abbia realizzato il remake di un suo stesso film: I dieci comandamenti, già portato da DeMille su schermo nel 1923. Con Charlton Heston nei panni di Mosè, il film ripercorre l’Esodo del popolo ebraico, dalla schiavitù in Egitto attraverso il Mar Rosso. In un certo senso, è un episodio opposto al Diluvio Universale, quasi a volerci far pace: dopo aver annegato il mondo, Dio consegna a un uomo il potere di separare le acque per fare la salvezza del popolo eletto. Una scena che, ancora oggi, colpisce per l’inventiva dietro l’effetto speciale.
Fin dalle prime scene del film di Oshii si può notare una gigantesca scacchiera, solcata dal protagonista mentre osserva “l’occhio delle anime” discendere dal cielo. Il pensiero va immediatamente alla scacchiera più famosa nella storia del cinema, quella di fronte alla quale il Cavaliere Antonius Block (Max von Sydow) sta giocando la partita più importante della sua vita: quella contro la Morte. Il film è Il settimo sigillo di Ingmar Bergman, caposaldo della cinematografia svedese (e mondiale) che con L’uovo dell’angelo condivide molti elementi. Il capolavoro di Bergman è stato più volte interpretato come una partita a scacchi tra la vita e la morte, come metafora del trapasso con riferimenti al Libro dell’Apocalisse. Senza dimenticare il grande morbo che minaccia di distruggere il mondo medievale del 1300: la peste nera. Come ne L’uovo dell’angelo, così i protagonisti de Il settimo sigillo vivono abbandonati dal Creatore in una sorta di “Silenzio di Dio”.

Al fianco dei più noti Sul bel Danubio blu di Johann Strauss e Così parlò Zarathustra di Richard Strauss, molti ricorderanno l’esistenza di un’altra colonna sonora, più raramente menzionata in riferimento a 2001: Odissea nello spazio. Si tratta delle melodie aliene e sinistre del compositore György Ligeti, presenti soprattutto nelle scene del monolite e fortemente richiamate dalla colonna sonora composta da Yoshihiro Kanno per L’uovo dell’angelo. In entrambi i film, queste sonorità persistenti hanno un ruolo preminente nell’accentuare la natura metafisica del viaggio. Ma L’uovo dell’angelo è altrettanto ricco, oltre al gotico e al cyberpunk, di un immaginario fantascientifico tout court. L’occhio alieno, le sue fattezze di planetoide, il feto delle stelle in cui si trasforma Bowman alla fine del film di Stanley Kubrick: tanti sono i richiami anche visivi che si ritrovano nel film di Oshii.

Non si può citare 2001: Odissea nello spazio senza prendere in considerazione il suo più grande “competitor” nato, in epoca di Guerra Fredda, da una corsa allo spazio combattuta fra Stati Uniti e Unione Sovietica a colpi di grande cinema. Se Kubrick parte dalla letteratura di Arthur C. Clarke, Andrej Tarkovskij trae ispirazione da un romanzo capolavoro della fantascienza d’oltrecortina: Solaris di Stanisław Lem. Il protagonista Kris Kelvin è uno psicologo che parte alla volta di Solaris, pianeta che viola tutte le leggi di sostenibilità orbitale ma reso oggetto di studi per la presenza di un “mare intelligente” che ne ricopre tutta la superficie. Quel mare è dotato di una sorta di coscienza collettiva creata dalle anime di chi vi si è perso. La capacità di creare strutture mutaforma e simulacri dei defunti sembra condividere le stesse proprietà del mare che circonda L’uovo dell’angelo.
Quando David Lynch fece conoscere il suo nome con un’opera prima strabiliante e imperscrutabile quale fu Eraserhead – il film preferito di Stanley Kubrick, fra le altre cose – pare non avesse idea, neanche lui, cosa stesse mettendo in scena. Racconta infatti Lynch: “Non avevo idea di cosa volesse dire. Così tirai fuori la Bibbia e iniziai a leggerla. Una frase completò la visione d’insieme al posto mio. Penso che non rivelerò mai quale fosse quella frase”. Ancora una volta la Bibbia, ancora una volta un feto di natura aliena al centro della storia. Quel senso di inafferrabile descritto da Lynch in riferimento alla sua stessa opera è sentimento molto familiare a Mamoru Oshii, che mai impose agli spettatori una lettura definitiva e univoca dei significati de L’uovo dell’angelo. Perché, come ammise, non avrebbe saputo darsela neanche lui. Seppur lontanissimi nello stile e nelle geografie, questi due cineasti hanno in comune il rifiuto quasi ideologico di spiegare i loro film e costringere quindi, lo spettatore, in un’interpretazione calata dall’alto. Come disse Kubrick per 2001: “Altrimenti penserà di non aver colto il punto”.

Torniamo nella cara vecchia URSS con un altro capolavoro di fantascienza firmato Andrej Tarkovskij, tratto da un altro capolavoro di fantascienza che con L’uovo dell’angelo ha molto a che fare. Stavolta parliamo di Picnic sul ciglio della strada (1972) dei Fratelli Strugackij – pubblicato lo stesso anno in cui Tarkovskij faceva uscire Solaris – da cui il regista trarrà Stalker. Gli stalker sono un incrocio fra degli sciacalli e delle guide turistiche con il compito di accompagnare i curiosi nelle “Zone”, parti del pianeta visitate da una civiltà aliena e disseminate di pericoli e tecnologie super-avanzate. I protagonisti sono alla ricerca (guarda caso) di una sfera dorata capace di esaudire qualunque desiderio, ma ben presto si renderanno conto che quelle tecnologie non sono altro che scarti. E loro, come formiche, di fronte a quanto resta di un picnic consumato sul ciglio della strada. Uno cambio di prospettiva che porta a rileggere tutte le proporzioni, come avviene nel finale di Oshii.
L’anno in cui il Muro di Berlino crolla, il regista giapponese Shin’ya Tsukamoto consegna al mondo il film che più di qualunque altro si è fatto simbolo, al contempo, del genere cyberpunk misto al body-horror. Tetsuo: The Iron Man ha per protagonista un uomo che, come feticcio, ha quello di innestare componenti metalliche nel proprio corpo. Nel capolavoro di Tsukamoto si ritrova Crash dello scrittore James G. Ballard, la commistione orrorifica fra carne e lamiere, ma anche l’incubo post-umano di un mondo fatto solo di metallo. Scritto, diretto, prodotto, fotografato, scenografato e montato da Shin’ya Tsukamoto, da un soggetto di Tsukamoto stesso – sì, era un genio – Tetsuo arriva quattro anni dopo Oshii. Segno che il tempo è maturo e le inquietudini cyberpunk sono comuni, soprattutto a una sensibilità giapponese che, ancora, non dimenticava quel giorno del 1945 in cui i corpi si fusero un tutt’uno con le strutture per effetto delle armi atomiche.

Di fronte a tanti capolavori, forse tutti, sembra strano chiudere con un film così recente, e senza aver aperto invece con un suo ben più illustre antenato: il Nosferatu di Friedrich Wilhelm Murnau. Ma sulle influenze dell’espressionismo tedesco nel film di Oshii ci siamo già dilungati. Ciò che è interessante, a questo punto, è prendere atto di come quell’immaginario gotico non sia mai passato di moda. Più spettrale che angelica, la bambina de L’uovo dell’angelo può ricordare un vampiro mentre si aggira nei borghi ai piedi dei Carpazi, in Transilvania. Comune a Murnau, Oshii e ora anche Eggers, l’estetica gotica rimane una delle più affascinanti e difficili (forse proprio perché ormai anacronistica) da portare su schermo. Ma ancora una volta, l’invito è di andare a caccia di inquadrature: un canale di notte, una presenza spettrale, una minaccia incombente.

Alcune di queste suggestioni potranno essere volontarie, altre sono solo suggestioni. Il bello di film come L’uovo dell’angelo è proprio la possibilità di dare libero sfogo alla fantasia. Di scovare, in un solo capolavoro, innumerevoli altri. Provateci anche voi: L’uovo dell’angelo vi aspetta dal 4 al 10 dicembre, per la prima volta al cinema in Italia, in questa stupenda versione restaurata in 4K.