Adesso al cinema, L’amore che non muore è descritto dal regista Gilles Lellouche come “una commedia romantica fra Scorsese e Tarantino”.
Dal 5 giugno è arrivato nei cinema italiani L’amore che non muore (L’amour ouf), film campione d’incassi in Francia. In concorso per la Palma d’Oro alla 77esima edizione del Festival di Cannes, 13 candidature ai Premi César, L’amore che non muore era stato descritto da Gilles Lellouche come “una commedia romantica ultraviolenta”. Era il 2013 quando uno degli attori nobili del cinema francese – e che all’epoca non aveva ancora fatto il suo debutto alla regia di un lungometraggio – espresse il desiderio di adattare il romanzo Jackie Loves Johnser OK? (1997) di Neville Thompson, rendendolo “un misto fra il cinema di Martin Scorsese, Quentin Tarantino e West Side Story”. Più di dieci anni dopo, ha portato quel progetto a compimento.
L’amore che non muore ha come protagonisti due pupilli del cinema francese: Adèle Exarchopoulos e François Civil vestono rispettivamente i panni di Jackie e Clotaire. Negli Anni ’80 – dove li troviamo interpretati da due bellissimi e convincenti Mallory Wanecque e Malik Frikah – avevano vissuto il loro amore adolescenziale, di quelli che ti bruciano l’anima: il paragone irraggiungibile di tutti gli amori maturi che seguiranno. Ma la diversa estrazione sociale, l’indole turbolenta di Clotaire e una condanna per rapina a mano armata l’avevano allontanato da Jackie. Più incattivito che riabilitato, una volta fuori Clotaire si riavvicinerà a Jackie. Ma il passato potrebbe tornare per saldare il conto.
L’amore che non muore è quello che succede quando si prende un film apparentemente visto e rivisto, e gli si aggiunge una serie di ingredienti inaspettati. Gilles Lellouch gioca con la camera, gioca con la struttura della sceneggiatura, ma soprattutto con i generi e i riferimenti geografici. Ha tutto di un film francese, ma anche tanto di un gangster movie americano o di un crime italiano. Insomma, è perfetto per chi ama le storie d’amore impetuose, ma anche uno spasso per i cinefili più restii al romance. Andando al cinema ve ne accorgerete, ma per aiutarvi a visualizzarlo, abbiamo pensato a cinque titoli lontanissimi della storia del cinema che ce l’hanno ricordato.
Lellouche l’ha citato, noi ne prendiamo atto. Perché se vogliamo, L’amore che non muore è il classico Romeo e Giulietta che gioca però sulla prevedibilità del finale. In altre parole, non è detto che per Jackie e Clotaire finisca allo stesso modo: dovrete scoprirlo. Ma se parliamo di Romeo e Giulietta, quale film se non il classico del 1961 tratto dall’omonimo musical del 1957, che univa le musiche di Leonard Bernstein a una rivisitazione dichiarata della tragedia di William Shakespeare. La Verona del 1300 diventa la New York degli Anni ’50, ai Montecchi e i Capuleti si sostituiscono le bande dei Jets e degli Sharks e i nostri protagonisti si chiamano Tony e Maria. Come sempre in queste storie, lui è il co-fondatore dei Jets e lei è la sorella del capo degli Sharks. Lui è bianco, lei è di origini portoricane. Ma lui ama lei e lei ama lui, e come sempre in queste storie, l’epilogo potrebbe finire in tragedia.
West Side Story non è solo uno dei musical più celebri della storia del cinema, che Gilles Lellouche riprende in molti modi. È uno spaccato multicolore e vivace della Grande Mela che in quegli anni parlava tutte le lingue del mondo. Basti pensare al brano America, un vero e proprio manifesto latinoamericano che celebra le commodities del Nuovomondo ma ne mette in luce le contraddizioni. West Side Story è un musical pienamente nel solco del cinema classico, pieno di colori e di paradossale ottimismo, prima che l’Epoca d’Oro entrasse in crisi, prima della New Hollywood e delle sue tonalità cupe. Ecco, L’amore che non muore, come ha detto Lellouche, è quello che sarebbe stato West Side Story se fosse uscito nella New Hollywood.
Se citi Tarantino, citi la Nouvelle Vague. Sembra un collegamento distante, ma la reazione commossa che l’ha visto protagonista all’ultimo Festival di Cannes, alla proiezione di Nouvelle Vague di Richard Linklater, dimostra che non è così. Tarantino cita costantemente dalla Nouvelle Vague, cita costantemente da Godard e Truffaut e cita in particolare da un film che, paradossalmente, era nato per citare Hollywood e i suoi B-Movie tanto amati dai due registi francesi. Uscito nel 1964 con il titolo di Bande à part – la casa di produzione di Quentin Tarantino si chiamava A Band Apart in suo onore – il settimo lungometraggio di Jean-Luc Godard è un ritorno a quelle follie registiche e narrative che l’avevano contraddistinto in À bout de souffle, sua folgorante opera prima e pietra miliare della Nouvelle Vague.
Anche Bande à part sarebbe diventata una di quelle pietre, e anche Bande à part – come À bout de souffle, come L’amore che non muore – è un film che unisce uno strano modo di fare noir e crime a uno strano modo di parlare d’amore. Lì si cominciava dal furto di una macchina, qui è la casa di una signora: Arthur e Franz progettano di intrufolarvisi come due soliti ignoti e per riuscirci si palleggiano Odile, nipote della signora, corteggiandola a turno. Un po’ triangolo amoroso, un po’ heist movie degli errori, si può capire perché Bande à part abbia influenzato tanto Quentin Tarantino nel suo film di debutto: Reservoir Dogs, storpiato alla francese. Godard, che qui torna vistosamente al montaggio discontinuo e al rifiuto della continuità, pare avesse 100.000 dollari alla Columbia per produrre il film. Quando gli dissero che era un compenso troppo alto, rispose: “No, non 100.000 dollari per me, è per l’intero film”.
Entriamo a gamba tesa nei primi Anni ’90, che questo film richiama tanto e che infatti vi accompagneranno fino all’ultimo respiro, all’ultimo titolo di questa rassegna. Cuore Selvaggio (Wild at Heart) è un film inclassificabile come gran parte della filmografia di David Lynch. È un road movie ambientato nel mondo del crimine, con punte di musical senza preavviso – gli incontenibili balli di Sailor e Lula, la reinterpretazione di Love Me di Elvis Presley – e montaggi sovraimpressi che rimandano all’onirico e Il mago di Oz. Ma Cuore selvaggio è anche storia d’amore che brucia il cuore e al contempo un perfetto neo-noir: cupo, anti-hollywoodiano, lirico e poetico ma al contempo efferato e violento. In un certo senso, è una sintesi fra il nero criminale di Bobby Peru (Willem Dafoe) e il rosa incantato della Strega Glinda (Sheryl Lee), due immaginari che sempre convergono nel cinema di Lynch.
Rosa e nero come due modi di raccontare una stessa storia sono infatti al centro, rispettivamente, del dittico di Strade Perdute e Mulholland Drive. Come rosa e nero sono rispettivamente Laura Dern e Nicolas Cage, scelta di casting geniale che Lynch compie unendo la sua eterna attrice feticcia all’eterno incompreso di Hollywood. Cioè, a modo loro, entrambi due outsider. David Lynch intuisce la grandezza incontenibile di Nic Cage, gli concede di indossare una giacca di pelle di serpente proveniente direttamente dal suo guardaroba e vince, anche grazie a questo, la Palma d’Oro a Cannes. Guarda caso, Cuore selvaggio è tornato al cinema giusto il mese scorso in apertura della rassegna The Big Dreamer, pensata in collaborazione fra Lucky Red e Cineteca di Bologna per omaggiare il grande regista recentemente scomparso, riportandone i film in sala per tutti i prossimi mesi.
Se parliamo della classica trama alla Romeo e Giulietta, l’avvento degli Anni ’90 segna un prima e dopo Cuore selvaggio nel cinema. Nel senso che se prima questo genere di film citava direttamente Shakespeare, dopo il 1990 non potevano non tenere conto della rivoluzione operata da Lynch. In altre parole, tutti i film di questo filone sanno di doversi misurare con Cuore selvaggio. Lo sa molto bene, per esempio, un novellino ancora in fasce di nome Quentin Tarantino. È il 1993, l’anno dopo Le iene, e da infaticabile cinefilo non può non aver visto il film di Lynch, che infatti riecheggia nella prima delle sceneggiature written (ma non directed) da Quentin Tarantino: True Romance. La regia è di Tony Scott, in italia esce come Una vita al massimo, ma nei territori francesi il titolo è À Cœur Perdu. Una certa assonanza che passa dal film di Scott a quello di Rivette (L’Amour fou), a sua volta dichiaratamente traslitterato da Lellouche in L’amour ouf.
Che Tarantino abbia visto Cuore selvaggio si nota anche solo dalla somiglianza fra il personaggio di Willem Dafoe nel film di Lynch con quello di Gary Oldman in True Romance: due antagonisti provenienti dal mondo criminale, caratterizzati da deformazioni fisiche del viso e da una sensazione di viscido profondo emanata attraverso lo schermo. Ma rispetto al film di Lynch, i ruoli dei protagonisti sono piuttosto invertiti: Alabama (Patricia Arquette) è la scapestrata, la forza trainante che scombussola la vita di lui e lo mette in situazioni di pericolo. Lui invece è solo Clarence, un tizio che lavora in un negozio di fumetti, ama il Kung Fu ed Elvis Presley e finisce in tutto quel baccano solo perché ha incontrato la persona sbagliata nel posto giusto: fuori da un cinema. Le somiglianze fra il personaggio di Christian Slater e lo stesso Tarantino si sprecano, e come sempre nel suo cinema, True Romance è un film che parla a sua volta di amore per il cinema. Un film che vive di se stesso, e dei film che sono venuti prima.
Con Fallen Angels, seguito ideale e non canonico del suo Hong Kong Express, Wong Kar-wai si aggiunge a coloro che uniscono uno strano modo di parlare d’amore, incorniciandolo in uno strano modo di fare crime e noir. Ovviamente, qui le distanze geografiche e stilistiche sono lontanissime, ma Wong Kar-wai è anche regista di Hong Kong; il suo stile, profondamente vicino a quello Occidentale. E che con L’amore che non muore può, infatti, condividere non solo un certo stile fotografico, ma anche temi, scene e situazioni. Fallen Angels è un film dalla doppia anima, una più crime e l’altra più sentimentale, suddivisa in altrettante storie al centro del film. Due storie che si parlano e si compenetrano per tutto il corso della pellicola, ma senza mai incontrarsi davvero, sempre procedendo in parallelo.
D’altronde, quello dell’incomunicabilità è uno dei temi più ricorrenti nel cinema di Wong Kar-wai. È il perno centrale di moltissimi suoi film, è ciò che separa le due storie di Fallen Angels e che poi si ritrova anche all’interno delle stesse, nel caratterizzare i rapporti di coppia dei protagonisti. Da un lato, un killer professionista deciso a cambiare vita ma intrappolato in un legame ambiguo, di fatto sentimentale, con la propria socia. Dall’altro, un ragazzo muto che cerca di avvicinarsi a Charlie, una giovane non vedente. Due storie, nessun intreccio a livello narrativo, ma un profondo legame di significati. L’amore è ciò che i personaggi di Wong Kar-wai inseguono senza mai raggiungere, ma è quello che i protagonisti di Gilles Lellouch ritrovano contro ogni aspettativa. Sullo sfondo, una fotografia fatta di neon, colori saturi e contrasti.
Commedia romantica, thriller, crime e gangster. Veri romanticismi, angeli che cadono, cuori selvaggi e altri che battono. À cœur perdu, L’amour fou, L’amour ouf. Cercate analogie e differenze, assonanze e passione, quando andrete a vedere L’amore che non muore, già da ora al cinema.