Bird di Andrea Arnold sarà al cinema dall’8 maggio: un viaggio completo nella filmografia della grande autrice britannica.
Andrea Arnold, una delle maggiori registe europee contemporanee e con ogni probabilità la più grande cineasta britannica del suo tempo, è nata il 5 aprile 1961 a Dartford (nel sud del Regno Unito e a circa 30 chilometri dai sobborghi di Londra), la stessa città che non hai smesso di ispirarla e tenne a battesimo la conoscenza tra Mick Jagger e Keith Richards, che proprio da lì fecero partire il sodalizio tra frontman e chitarrista che avrebbe dato vita alla più grande rock band di tutti i tempi, i Rolling Stones.
Anche il cinema di Arnold, dal canto suo, è un cinema sfrontato e selvaggio, passionale e ardente, rock anch’esso; straordinariamente sintonizzato sul racconto in purezza degli esseri umani, del degrado e delle contraddizioni che essi possono trovarsi a vivere ogni giorno in luoghi che sono periferie dell’esistenza, anfratti sociopolitici e laboratori di sperequazioni sociali, dimenticati da Dio e dagli uomini. Un cinema che ha sempre portato alla ribalta anime giovani e tormentate, donne spezzate, adolescenti riottose e indimenticabili.
Attiva in tv all’inizio degli anni ’80, quindi poco prima che ventenne, per il programma per bambini No. 73 (1982-88) dell’emittente ITV (una fusione di chat, articoli di riviste ed elementi di commedia), ha poi abbandonato il lavoro di presentatrice televisiva, pur descrivendo sempre come divertente la sua esperienza per il piccolo schermo (fu anche ballerina di Top of the Pops: un trascorso che nelle scelte delle canzoni per i suoi film si sente tantissimo, come nel cinema di un altro enfant prodige pop e arthouse al contempo, Xavier Dolan). Passò così al cinema fatto da dietro la macchina da presa e non diede seguito alla vocazione d’attrice scoperta a quindici anni (alla televisione si è poi dedicata nuovamente in anni più recenti, firmando la regia di gioielli di assoluto rilievo e successo della prestige tv come la serie Amazon Transparent e I Love Dick e Big Little Lies per HBO, alla quale ha lavorato per la seconda stagione).
Da lì a poco arriveranno gli studi regia nel rinomato AFI Conservatory, a Los Angeles, dove ha frequentato anche dei corsi dell’American Film Institute, e scrittura cinematografia al PAL Labs, nel Kent, nella sua contea inglese natale. Tra i film che ne hanno più determinato il gusto, come ricorda Stella Johnston sulle colonne del sito del British Film Institute, Arnold cita direttamente Apocalypse Now (Francis Ford Coppola, 1979), Alien (Ridley Scott, 1979), The Elephant Man (David Lynch, 1980) e Blood Simple (Joel Coen, 1984), opera prima dei fratelli Coen e noir postmoderno tutto sangue colante, tensione strisciante e sudore sulla fronte.
Al suo ritorno in Inghilterra, la cineasta ebbe anche una figlia, Carol, col compagno, ingegnere informatico, iniziando finalmente a girare i suoi cortometraggi, quasi come se l’esperienza diretta della maternità le avesse dato l’input definitivo a compiere il grande passo da regista. Da sempre attenta alla psicologia, ha detto di essere «ossessionata dal perché le persone diventano ciò che sono» e tutto il suo cinema, a conti fatti, può essere visto come un’elaborazione, mai morboso, di quest’ossessione.
In Milk una giovane partoriente si ritrova con latte al seno ma senza un figlio da poter allattare, a causa di un aborto causato dal distacco della placenta, mentre Dog, presentato alla Semaine de la Critique di Cannes proprio come il precedente, vede un cane svelare la vera natura di un ragazzo durante un rapporto sessuale con una coetanea.
Lo short film che ne fece esplodere il talento imponendola precocemente all’attenzione del mondo è però il magnifico Wasp, Oscar per miglior cortometraggio premiato al Sundance Film Festival del 2004: una piccola storia, su una donna di nome Zoe con quattro figlie a carico (tutte ancora in tenerissima età), che abbandona nel parcheggio di un pub per uno squallido rapporto sessuale in una discarica con un ragazzo dalle brutte frequentazioni, spesso strafatto di marijuana (un personaggio che pare fare a pezzi, complice la somiglianza fisica e un poster sulle pareti, la massima icona inglese di quegli anni, il calciatore David Beckham, allora già passato dal Manchester United al Real Madrid). Wasp, in cui anche gli spiccioli hanno un ruolo narrativo fondamentale, fu un corto molto sentito e spudoratamente autobiografico, in cui Arnold, interessata quasi a dimostrare che si può rimanere “cattive madri” mantenendo intatto l’amore per la prole e senza trasformarsi giocoforza in una Medea, sembra disseminare molti elementi della sua infanzia vissuta con una madre single che la crebbe da sola, prima di quattro fratelli e concepita da una madre e un padre che all’epoca avevano rispettivamente 16 e 17 anni, separatisi quando lei era molto giovane.
Un tema, quello della ragazze (e) madri segnate da contesti di degrado sottoproletario, che, come vedremo tra poco, tornerà in molti capitoli della sua filmografia, e che parte proprio da qui: da quattro bimbe che arrivano a chiamare i servizi sociali per evitare che la propria madre perda la potestà su di loro, dando all’infanzia un grandissimo potere risolutivo ed elevando dei bambini al rango di adulti, alle cui disfunzionalità sono chiamati a rispondere facendone le veci (da notare il nuovo ricorso al cane come deus ex machina per disinnescare la brutalità virile, che inaugura un rapporto con gli animali che tornerà regolarmente nella poetica arnoldiana, fino all’ultimissimo Bird). La stessa Arnold fu affidata dai servizi sociali a una casa-famiglia, ma guardando le immagini di Wasp, vengono in qualche modo in mente le parole dello psicoanalista lacaniano Massimo Recalcati, che nel secondo dei suoi Ritratti del desiderio, quello dedicato al desideri dell’Altro, leitmotiv in purezza dei lavori di Arnold, scrive: «La scena adesso non è più occupata dal volto sfigurato di un bambino trafitto dal tarlo passione della gelosia, non ha al centro il suo “sguardo torvo” e risentito».
L’esordio ufficiale di Andrea Arnold in un lungometraggio e anche il film che, in nuce, ne sintetizza tutto il talento e le modalità di sguardo. La protagonista Jackie Morrison (Kate Dickie, futura interprete de Il trono di spade e Star Wars qui al debutto), donna di mezza età che anagraficamente dimostra molto meno dei suoi anni, lavora a un sistema di telecamere di sorveglianza a circuito chiuso (CCTV): uno spunto che potrebbe sembrare uscito da un film di Michael Haneke, ma che la regista inglese declina in maniera estremamente puntuale, portando però questa professione ai margini del racconto per concentrarsi sulla vita randagia di Red Roads Flats, il peggiore e più malfamato quartiere di Glasgow, in uno dei quei classici sobborghi ai margini cari al cinema di Arnold, tutto fuochi appiccati in lontananza e strade sporche e desolate.
La macchina a mano e il costante pedinamento sono usati come strumento di “sfocatura”, che fonde insieme mani e occhi con fare prensile, affinché sia strumento conoscitivo sia per la cineasta che per gli spettatori, alla ricerca di una sensorialità come sempre esibita. Il tallonamento della macchina a mano è costante e, dopotutto, è un film che aderisce molto ai canoni del Dogma 95, il “movimento” cinematografico fondato da Lars von Trier e Thomas Vinterberg a Copenhagen nel 1995, inglobandone l’estetica e il senso di provocazione, a partire da una nozione dura e pura di digitale povero. Un esempio su tutti: prima dell’amplesso tra Katie e l’uomo, una foto di una bambina di tredici anni è visibile sul letto proprio perché figlia di quest’ultimo e fa immediatamente scivolare il dialogo su di lei; una scena misera e squallida, in puro stile “dogmatico”, ma anche un momento di singolari malinconia e crudezza. Il film ha fatto parte proprio di un progetto firmato da von Trier per la sua Zentropa, Advance Party, che prevedeva la realizzazione di tre opere di autori differenti sui medesimi personaggi. Se il sonoro appare volutamente sporco, all’epoca il film fece parlare soprattutto per la scena erotica molto esplicita cui si accennava, particolarmente grafica e quasi pornografica, guidata da una spudoratezza evidente cara allo sguardo di Arnold, cineasta abituata a filmare la fisicità di tutti i i tipi in maniera palpitante e vigorosa (in questo caso inizia a farlo anche con punti di vista e giochi di luce particolarmente arditi).
Red Road vinse il premio della giuria al 59esimo Festival di Cannes, dove Arnold sarebbe tornata da giurata nel 2011, nella giuria presieduta da Nanni Moretti che consegnò la Palma d’oro ad Amour di Michael Haneke. Proprio a quest’ultimo e al “padrino” dell’operazione Von Trier il film fu largamente accostato dalla critica dell’epoca, ma la successiva evoluzione del corpus di opere di Andrea Arnold avrebbe palesato una ben maggiore dose di compassione rispetto al sadismo del provocatorio artista danese (gli altri registi scelti per la trilogia di debuttanti erano Morag McKinnon e Mikkel Noeergaard, su personaggi creati da Lone Scherfig e Anders Thomas Jensen) e alla vocazione entomologica del maestro austriaco.
Mia (Katie Jarvis) è una quindicenne disadattata e senza amici, che vive in un complesso di case popolari dell’Essex (a est di Londra) tanto care ad Arnold. Espulsa dalla scuola a causa dei suoi comportamenti sopra le righe e recalcitranti, si getta a capofitto nella passione per l’hip hop. A gettare benzina sul fuoco con l’arrivo in casa del nuovo fidanzato della madre (Kierston Wareing), Connor (Michael Fassbender). Secondo film per Andrea Arnold (e secondo Premio della giuria a Cannes), Fish Tank è forse il suo film più vicino alla lezione civile di Ken Loach e al magistero di Mike Leigh, due grandi cineasti britannici della working class rivistati qui con una tambureggiante sensibilità musicale, che abbraccia tanto la danza quanto la pervasività di una colonna sonora come sempre ricchissima e scelta con perizia.
La macchina da presa sceglie di protrarre per tutto il film una soggettiva della protagonista, continuando a indagare, come già nel precedente Red Road, una femminilità inquieta cannibalizzata dallo sguardo maschile e fallocentrico, costantemente in bilico tra il ruolo della preda e quello della predatrice e dunque anche, cinematograficamente e voyeristicamente, dell’osservatrice e dell’osservata, col ralenti a fare qui da contrappunto semantico decisivo, attraverso una famelica, memorabile scena di sesso fino ad approdare acquaticamente sulle sponde del fiume londinese Tamigi (anche in questo gli animali, e in particolare i cavalli, rivestono un’evidente funzione salvifica per le disastrate traversie di donne dalla quotidianità dura e violentata da contesti disadattati). Katie Jarvis, per la prima volta sullo schermo, fu scritturata dopo che un assistente di Arnold la vide discutere animatamente e litigare col fidanzato alla stazione di Tilbury, una delle reali location del film: un procedimento che racconta molto del metodo Arnold e del suo rapporto empirico, crudo e viscerali con tutti i suoi attori, da sempre. Il titolo illude a una “vasca del pesce” da cui fuori-uscire, immagine assai esemplificativa dei moti psicologiche delle bambine, ragazze e donne arnoldiane.
Un contadino dello Yorkshire in visita a Liverpool accoglie in casa il giovane vagabondo e senzatetto Heathcliff (James Howson), un homeless nero che instaurerà un rapporto malsano con la figlia Catherine (Kaya Scodelario). Andrea Arnold prende il celeberrimo, omonimo (e unico) romanzo di Emily Brontë e lo inscrive nella sua consueta idea di carnalità, riadattandolo e rimodellandolo alle sue personali esigenze espressive, in uno scabro – ma non per questo non vertiginoso – singolare, personale adattamento delle pagine della scrittrice inglese. Il testo di partenza viene spogliato di romanticismo per intavolare un preciso e brutale discorso sulla sopraffazione (per una volta Andrea Arnold si affida a una sceneggiatrice che non sia lei, Olivia Hetreed), ben esemplificato dalla scelta di mettere fisicamente e tangibilmente in gabbia i personaggi attraverso la scelta del formato 4:3, che non disdegnano però il ricorso massiccio ai primi piani.
L’anima “giovane e tormentata” e il fulcro del racconto, è stavolta un maschio, in aperta discontinuità sentimentale e di genere col focus femminile e femminista del libro, datato 1847: un Heathcliff insolitamente interpretato da un attore afroamericano, tradendo la verità del testo per scegliere una propria personale, e politica, idea di rappresentazione, chiamata a fare i conti coi fantasmi della violenza intrinseca a ogni razzismo (a 15 anni Arnold, vera enfant prodige, scrisse la sua prima opera teatrale denunciandone le atrocità. Spiccava sui titoli di coda, in un film in cui per una volta Arnold fa voto di castità totale sulle musiche, la spoglia ballata The Enemy dei Mumford and Sons sui titoli di coda, mentre il casting si votò alla ricerca di nuovi talenti sconosciuti da lanciare. Sempre nel 2011 Arnold ottenne la nomina a Ufficiale dell’Ordine dell’Impero Britannico per i servizi resi all’industria cinematografica, mentre il solito Robbie Ryan si aggiudicò l’Osella d’oro alla miglior fotografia alla Mostra del cinema di Venezia, dove Arnold fu poi giurata nel 2013 (presidente di giuria Bernardo Bertolucci, Leone d’oro a Sacro GRA di Gianfranco Rosi).
Star (Sasha Lane), adolescente americana dalla vita sregolata, conosce un giorno dei ragazzi errabondi, abituati a peregrinare per gli Stati Uniti vendendo riviste porta a porta. Tra di loro il più bello e tormentato è Jake, che catturerà l’attenzione di Star e col quale scatterà presto la scintilla, in un vortice di piccoli furterelli, dita sfiorate e amplessi en plein air. Il nome della protagonista, nel film forse più indimenticabile di Andrea Arnold, per molti (fin qui) il suo film più riuscito (nonché il suo primo lungometraggio americano), dice già tutto: una stella precipitata in un cielo troppo buio per brillare, una reietta del sogno americano condannata all’oblio ma ugualmente pronta a farsi beffe dell’American Dream mordendo la vita ogni giorno, senza paura di ingoiarne anche i frammenti più scivolosi e taglienti. Un viaggio on the road in delle bandlands dal sapore malickiano che è emulo diretto della beat generation, aggiornata in chiave e con l’estetica millennial, un romanzo di formazione (ancora una volta) allucinato e psichedelico, con momenti di stritolante e abbagliante poesia visiva e sonora, dalla durata monstre generosamente protratta fino a sfiorare le tre ore (non si registrano però momenti di stanca e la partitura registica è tanto trascinante quanto ipnotica). La sequenza iniziale in cui Star e Jake si adocchiano, si piacciono, si desiderano e (probabilmente) già s’innamorano, tra gli scaffali di un anonimo supermercato e sulle note di We Found Love di Rihanna, è tra le fusioni di musiche e immagini più rilevanti del cinema contemporaneo, insieme allo scatenato ballo (la popstar delle Barbados), ma tutta la colonna sonora, che spazia dalla hit Take your time di Sam Hunt ai più indie Mazzy Star, Will Oldham e Bonnie “Prince” Billy, passando per il capolavoro di Bruce Springsteen Dream Baby Dream e la title track eponima dei Lady Antebellum, è semplicemente da urlo.
Un grande melodramma contemporaneo sui fuochi fatui, su quello che resta, su stelle cadenti (Star, appunto) che diventano principesse per una notte lunga un’intera esistenza, da vivere in apnea, senza pensare al domani e quasi senza respiro, prima che tutto svanisca. A Jack Kerouac non sarebbe probabilmente dispiaciuto affatto e il 2015 per la regista è anche l’anno della Laurea in Lettere Honoris Causa all’Università di Essex, a riprova della statuto ormai anche “letterario” del suo cinema). Accanto ai noti LaBeouf e Riley Keough, il cast è di esordienti, compresa la protagonista Sasha Lane, all’epoca studentessa del Texas al primo anni di università, “scovata” dalla regista a Panama City Beach, in Florida. Un capolavoro mozzafiato, ispirato a un articolo del New York Times del 2007 a firma di Ian Urbina, girato in soli 56 giorni durante un autentico viaggio attraverso gli USA con molti attori presi dalla strada. Ancora una volta, è premio della giuria al Festival di Cannes (il terzo, per Arnold), dove la regista sarà poi presidente di giuria di Un Certain Regard nel 2021 e insignita della Carrosse d’Or della Quinzaine des Cinéastes 2024.
La dodicenne Bailey (Nykiya Adams) vive nei sobborghi degradati di un paese nel nord del Kent. Con lei il giovanissimo padre Bug (Barry Keoghan, con una scelta musicale tutta da scoprire, messa lì a sbeffeggiare amabilmente il suo Saltburn), scavezzacollo abituato a ficcarsi nei guai e spacciatore dalla vita disordinata, e il più insofferente fratello Hunter (Jason Buda). Un incontro imprevisto, quello con Bird (Franz Rogowski), finirà per cambiare il corso della sua vita più di quanto lei stessa era disposta a immaginare. Subito dopo il documentario Cow (2021), sulla sua anti-eroina più insolita (una mucca da latte di nome Luma), l’ultimo film di Andrea Arnold, in sala dall’8 maggio e presentato in Concorso al Festival di Cannes 2024, porta il cinema della regista verso inedite vette fantasy, che fanno del più elementare dei simbolismi “ornitologici” (dopo il bellissimo documentario femminista su una mucca di nome Luma, Cow) un vettore di estrema e bruciante poesia, toccando vette più che mai libere e immaginifiche, crocevia tanto di abbrutimento quanto di spassionata adesione alla vita, alle sue meraviglie, agli inciampi e alle miserie che la costellano.
In conferenza stampa a Cannes Arnold ha raccontato l’episodio che ha fatto scattare l’idea per il film, per il quale come spesso le accade è partita da una singola immagine: «Molto tempo fa, ho avuto la visione di un uomo, alto e magro, con un lungo fallo, in piedi su un tetto. Era completamente nudo, ma non sapevo se fosse buono o cattivo». Una colonna sonora come d’abitudine scatenata, stavolta massicciamente orientata ai brani capisaldi del brit-pop (The Universal dei Blur, Lucky Man dei Verve, Yellow dei Coldplay, ma anche i post-punk Fontaines D.C. per i quali Arnold ha girato con immagini di Bird un video-musicale, Bug) contribuisce a fare di Bird l’ultimo tassello di una filmografia preziosa, sempre incastonata nel macro-tema della maternità (ancora una volta c’è una madre disordinata, con tre figli avuti da altrettanti uomini diversi) e, fin qui, imperdibile e irrinunciabile in ognuna delle sue tappe. La si può immortalare a tutti gli effetti come un unico, infinito coming of age, un infinito bildungsroman in costante aggiornamento e divenire, che in Bird viene declinato in forme anche spirituali, quasi da filosofia New Age, rimanendo, nonostante tutto, tracimante speranze e pulsante di vita sofferta, negata, soggiogata, ma sempre e comunque vissuta e dunque, alla maniera di Truffaut, anche filmata.