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Presenze e mosaici della contemporaneità nel cinema «senza frontiere» di Steven Soderbergh

Alla scoperta del Cinema di Steven Soderbergh: l’eclettico regista che torna dal 24 luglio in sala con Presence.

di Davide Stanzione*

Se c’è un cineasta inclassificabile ed eclettico, capace di leggere il presente e di restituirlo in tutta la sua prismatica e multiforme complessità, quello è sicuramente Steven Soderbergh. Nato ad Atlanta, in Georgia, il 14 gennaio 1963, il regista premio Oscar si è sempre distinto come un autore sfuggente, imprendibile, in grado di interpretare e perfino decrittare, in maniera personale e idiosincratica, le tendenze del cinema contemporaneo affrontandone controcorrente i generi e arrivando talvolta a predirne risvolti e a metterne in discussione certezze e diktat produttivi e commerciali.

Cresciuto a Baton Rouge, in Louisiana, in una famiglia di origini svedesi (il cognome Söderberg venne anglofonizzato in Soderbergh), ha iniziato a dirigere cortometraggi già a tredici anni. Dopo il diploma si trasferisce a Los Angeles, dove lavora come montatore freelance: una pulsione al contempo tecnica e artistica, quella dell’editing, che da sempre attraversa il suo cinema come spinta verso la rielaborazione e la ricomposizione della complessità, tanto più in scenari ondivaghi e spesso contraddittori, come quelli della Hollywood a cavallo tra il postmodernismo degli anni ’90 e gli orizzonti più contemporanei dello streaming e delle piattaforme digitali (con High Flying Bird, il suo film sul basket per Netflix del 2019, ha usato per esempio il mondo della pallacanestro per parlare degli orizzonti sempre più asfittici dell’intrattenimento contemporaneo e delle sue logiche di mercato). 

Grazie a questa sua capacità di sondare come un sismografo mutamenti e anfratti del sistema cinematografico, riesce a coltivare una buona dose di equilibrismo anche da produttore, muovendosi tra nomi di grido del cinema liberal USA (George Clooney, Tony Gilroy), autori di cinecomic (i fratelli Anthony e Joe Russo) e registi deliberatamente più arthouse (Todd Haynes e la britannica Lynne Ramsay).

A questa vocazione produttiva si affianca inoltre una precisa idea di autorialità, che passa anche da scelte simboliche e personali: non si può non notare, anche in chiave psicoanalitica, come Soderbergh, indubbiamente tra i più “europei” registi statunitensi in attività (anche per la sua fedeltà a sceneggiatori abituali come Scott Z. Burns o David Koepp), abbia spesso firmato il montaggio dei suoi film col nome della madre, Mary Ann Bernard, e la direzione della fotografia con quello del padre, Peter Andrews, giocando perfino con le sue origini familiari e mettendo in luce a chiare lettere anche la dimensione ludica della sua attitudine intellettuale, un aspetto ben visibile anche nelle mega-liste annuali su tutto ciò che ha visto, letto e ascoltato nell’arco di dodici mesi, che è solito pubblicare ogni fine d’anno, e nelle sue serie tv più recenti, tutte più o meno sperimentali, dalla dimensione videoludica di Mosaic (2018) al poliziesco corale di Full Circle (2023) fino all’intelligenza artificiale di Command Z, dello stesso anno.

“Ogni film è una storia di fantasmi”

Il suo nuovo film, Presence, in arrivo nelle sale italiane il prossimo 24 luglio, è la variazione Soderberghiana sull’ossessione dello sguardo: un horror in soggettiva in cui la pulsione scopica si fa ghost story familiare, ma anche radiografia impietosa di narcisismi e particolarismi che minano — da una prospettiva anche intergenerazionale e multietnica — le fondamenta ipocrite e rattrappite della tradizionale famiglia media americana. Un racconto di presenze remote ma, in questo caso, rigorosamente “in presenza” (come si direbbe oggi), pur se disincarnate e metafisiche: un corpo a corpo con gli spettri del desiderio e della morte. 

Un dispositivo cinematografico che, sotto le sembianze della home invasion, dell’infestazione di corpi ma soprattutto di sguardi, si fa sintomo voyeuristico delle pulsioni – anche le più vergognose, ossessive e indicibili – che abitano il presente: vedere, essere visti, esistere per vedere.

Se, come scrisse David Foster Wallace, ogni storia d’amore è una storia di fantasmi, anche il cinema di Soderbergh è un corpus di riflessioni e segni da sempre votato ad accogliere dentro di sé emanazioni incorporee della società, dei suoi costumi, delle sue tendenze e, inevitabilmente, delle sue derive. 

Il tema del fantasma, inteso non solo come entità sovrannaturale ma anche come metafora delle tensioni emotive e sociali che animano i suoi personaggi, attraversa l’intera opera di Soderbergh sin dal suo esordio. Presence può così essere letto come l’ultima tappa di un percorso iniziato con Sesso, bugie e videotape, un film che già esplorava il lato oscuro e nascosto del desiderio umano, impregnato di pulsioni voyeuristiche e di quel senso di inquietudine latente che rende i suoi racconti così intensamente “fantasmatici”.

Quel film, scritto e diretto da Soderbergh, vinse nel 1989 la Palma d’Oro al Festival di Cannes, consacrando il regista come il più giovane cineasta ad aver mai ricevuto il premio. Ottenne anche il premio per la miglior interpretazione maschile (James Spader) e la nomination all’Oscar per la miglior sceneggiatura originale. Sex, Lies and Videotape rappresenta uno degli esordi più rilevanti degli anni ’90, un saggio di regia asettico e raggelante. Rivisto oggi, sembra quasi un prototipo teorico e una scatola nera di tutto il thriller erotico anni ’90, che ha segnato un decennio con propaggini sia precedenti che successive, da Basic Instinct in poi.

Continuare a (ri)pensare la storia del cinema: la dimensione teorica

Soderbergh è sempre stato, e rimane tuttora, un cineasta teorico, tanto da godere di una crescente e sacrosanta attenzione critica anche in Italia. Il suo cinema pare infatti sempre mosso dall’istanza, che Giona Nazzaro, direttore del Locarno Film Festival, riconduce addirittura al magistero di Jean-Luc Godard, di ripensare costantemente e quasi in presa diretta la storia del cinema, il suo effetto domino nel presente e la funzione stessa del dispositivo cinematografico come veicolo analitico dell’umanità in tutte le sue forme e studio intimo dell’autorappresentazione. 

Soderbergh è poi un regista totalmente ancipite, quasi un mostro a due teste: da sempre nella sua produzione convivono, fedelmente a vecchi codici e mantra hollywoodiani, la tendenza a mettere insieme macchine divistiche complesse, ma sempre stratificate – come nel thriller sentimentale tratto da Elmore Leonard Out of Sight, con George Clooney e Jennifer Lopez, e ovviamente la trilogia degli Ocean’s in cui Soderbergh gioca con l’altra sua grande passione, gli heist movie – accanto a operazioni spiazzanti, meno ecumeniche e più sfacciatamente cinefile.

Come nelle opere di Franz Kafka, esplicitamente omaggiato in Delitti e segreti (1991), i suoi personaggi sono spesso soggiogati da una pre-determinazione capitalistica dello spazio e del tempo. Attraverso questa lente, Soderbergh riflette in controluce sulle catene e sui dettami che castrano quasi hitchcockianamente l’iniziativa dell’individuo, generando frustrazioni e inceppamenti (La truffa dei Logan, più recente contraltare “proletario” degli Ocean’s), spinte anarcoidi del singolo e storture in forma di collasso della burocrazia ma anche di costante doppio gioco, per citare il film di Robert Siodmak del 1949 (tratto dal medesimo romanzo, Criss Cross di Don Tracy, su cui era basato anche il suo Torbide ossessioni).

Da questo punto di vista il suo film più rilevante, in chiave di legittimazione presso il grande pubblico, è senz’altro Erin Brockovich – Forte come la verità (2001), che valse l’Oscar e una valanga di altri premi a Julia Roberts per la sua brillante interpretazione di una segretaria precaria di uno studio legale e madre di tre figli divorziata, capace di smascherare l’operato della Pacific Gas and Electric Company, responsabile di aver contaminato le falde acquifere della cittadina californiana Hinkley causando tumori ai residenti. Un esempio di cinema classico based on a true story, che incrocia il celebrity show e la denuncia affilata, civile e popolare al contempo.

Profezie del contagio

In Gray’s Anatomy (basato su un monologo di Spalding Gray) Soderbergh riflette sulle paranoie medico-scientifiche che hanno vasta eco e risonanza nella contemporaneità e le approfondisce ulteriormente in una sorta di personale “manifesto storico” sul tema, nell’acclamata serie The Knick, dove, nella New York del 1900, il brillante dottor John Thackery (Clive Owen), affetto da una forte dipendenza da cocaina e oppiacei, dopo l’improvviso suicidio del suo mentore, assunse la guida del reparto di chirurgia del Knickerbocker Hospital.

Se The Knick, tra i massimi capolavori seriali degli anni 2010, era una sorta di affresco su un periodo di fortissima trasformazione della scienza medica a cavallo tra XIX e XX secolo, chiamata a farsi più “sofisticata” pur rimanendo ancorata a pulsioni, metodi e indagini di tipo più rudimentale e corporeo (la psicanalisi freudiana, in fondo, era appena nata proprio come il cinema), nel poco precedente Contagion Soderbergh è arrivato addirittura, già nel 2011, a “vaticinare” la recente pandemia narrando un virus di finzione spaventosamente simile al COVID-19.   Contraddistinto da uso mortifero dei divi, fatti morire uno dopo l’altro senza troppi complimenti, il film si configura come una ricognizione clinica e rigorosa delle dinamiche di diffusione di un virus in una società globalizzata, rivelandosi oggi ancora più inquietante e attuale.

Presenze sonore

In Presence, la narrazione è filtrata dal punto di vista di un fantasma, figura sospesa tra vivi e morti, e questa condizione liminale si riflette nel trattamento musicale. La colonna sonora non è mai invadente ma guida con delicatezza la scena, insinuandosi come un sussurro, un’eco impercettibile nella diegesi. Non si tratta di melodie riconoscibili o temi ricorrenti, ma di un tessuto sonoro di frequenze rarefatte, rumori ambientali amplificati e intermittenti che mimano il tremolio incerto di una famiglia americana come tante, immersa nella propria spettralità.

Già ne L’inglese (1999) la musica cupa e rauca di Tom Waits scandiva le immagini di un uomo in cerca di vendetta, non cercando alcun approdo consolatorio ma lavorando su fratture e contrappunti. Anche in Traffic (2000), che valse a Soderbergh l’Oscar alla regia nell’anno in cui ottenne una storica doppia candidatura anche per Erin Brockovich, la musica emergeva come strumento narrativo vero e proprio, ergendosi a caleidoscopio sonoro in grado di riflettere la complessità morale e sociale di un racconto polifonico e stratificato sul narcotraffico, destinato anche in questo caso a polverizzare i confini geopolitici e le comode, narcotizzanti certezze della società e della buona borghesia occidentale.

In Ocean’s Eleven e i suoi sequel, la musica integra la costruzione del mondo del film, un universo dove gioco, frode e spettacolarizzazione si configurano come una performance musicale, un balletto coreografato al millimetro, con una colonna sonora dai toni funky e groove-soul che crea una dimensione di distanza ironica e consapevolezza metacinematografica. In Solaris (2002), remake del capolavoro di Tarkovskij con protagonista il solito George Clooney (insieme ai fratelli Coen della “trilogia dell’idiota”, Soderbergh è il regista che ha decostruito maggiormente la sua icona di sex symbol), la musica di Martinez si fa vapore lento e avvolgente, accompagnando la disgregazione del tempo e dello spazio. Questo si coglie chiaramente anche in Unsane (2018), horror psicologico sullo stalking, girato tutto con un iPhone in condizioni di quasi totale assenza di musica originale e con un ampio ricorso a rumori ambientali.

Impossibile non citare a tal proposito anche Magic Mike (2012), altro spietato saggio sul capitalismo americano e i suoi lati oscuri che, travestito mirabilmente da racconto spettacolare sull’estasi sessuale dei corpi virili, utilizza brani pop e dance per scandire il ritmo del racconto al servizio delle performance degli spogliarellisti, inserendo la musica in un contesto di spettacolo tanto consapevole quanto non per questo meno famelico. La colonna sonora diventa così anche commento sociale in presa diretta, tra seduzione e ironia, riflettendo sulle ambiguità del desiderio e sulla sua eterna, inviolabile mercificazione.

Architetture di contaminazione

Il cinema di Soderbergh è probabilmente un cinema che si muove con eleganza formale, ma che non si fida mai dell’eleganza stessa, slabbrandola di continuo e rimettendo costantemente in discussione le proprie stesse certezze. Il decoro, per Soderbergh, è solo il modo più sofisticato per nascondere la contaminazione e l’ibridazione dei linguaggi che da sempre lo animano e lo ispirano. L’esercizio del crimine negli Ocean’s è una danza, ma rimane pur sempre un crimine. L’inganno in The Informant! (2009), commedia nera con Matt Damon su FBI, multinazionali agroalimentari e menzogne endemiche del potere, è ridicolo e farsesco come il suo protagonista, ma lascia ugualmente ferite profonde. Il contagio in Contagion è scientifico, asettico, ma porta la morte nel cuore delle metropoli di tutto il mondo.

Ogni sistema è dunque destinato a infettarsi, ogni controllo a crollare ed essere messo sotto scacco, sembra dirci il suo cinema. Soderbergh costruisce infrastrutture dell’immagine che sono esse stesse una forma di pensiero critico sulla società e sul presente, solo per mostrarne la fragilità intrinseca e le molteplici, strutturali incoerenze. Questa poetica del sospetto non si risolve in paranoia – non è mai una semplificazione narrativa – ma diventa sguardo, come in Kimi (2022), ennesima, post-pandemica variazione hitchcockiana sul tema della finestra sul cortile con Zoë Kravitz nei panni di un’informatica, o in Effetti collaterali (2013), affilato j’accuse alle case farmaceutiche con Channing Tatum e Rooney Mara alle prese con problemi psichici di coppia. Un modo per vedere la realtà come un sistema sempre contaminabile, o forse già contaminato. I film arrivano così a funzionare come camere di decompressione, dove lo spettatore entra per essere gradualmente esposto alla diffusione di un virus – narrativo, etico, visivo – fino a doverci fare prontamente i conti, vivisezionando così i traumi collettivi del contemporaneo in forma quasi laboratoriale. 

In Bubble (2005), film minimale girato con attori non professionisti e senza una vera sceneggiatura, tra i titoli indie più paradigmatici di tutto il corpus soderberghiano, la provincia americana si rivela infestata da un disagio silenzioso, che non urla mai ma si insinua (another Steven Soderbergh experience, recitava eloquentemente la tagline di lancio del poster). Il male, nel cinema Soderberghiano, è in definitiva sempre irrilevante, seppellito sotto turni di lavoro e frasi automatiche, anche nei suoi film che somigliano di più a giochini cinefili sterili e calligrafici (Intrigo a Berlino, richiamo marcato al noir anni ’40, o i più recenti Knockout – Resa dei conti, sul mondo delle arti marziali e Black Bag – Doppio gioco, personale omaggio all’estetica di James Bond e allo spionismo anni ’70). 

Ogni transazione è di per sé un contagio

The Girlfriend Experience (2009), forse il suo film più sottovalutato e snobbato dalla  critica togata, con protagonista l’ex pornostar Sasha Grey, racconta il lavoro sessuale di lusso come un’equazione economica – così come Panama Papers (2019) faceva con le storture della finanza globale, o Let Them Talk (2020) con l’ipocrisia corrente e corriva del mondo letterario e intellettuale. Ma ancora una volta è lo spazio che grava su tutto, tra echi del collasso finanziario del 2008, grande economia di mezzi (“solo” un milione di dollari di budget e appena 16 giorni di riprese) e soprattutto spazi: gli appartamenti, gli hotel, gli interni asettici in cui si muovono i clienti del sex working, alla ricerca disperata di un’intimità simulata.

Il desiderio, una volta di più, non è presenza ma transazione, come già suggeriva il suo episodio di Eros (Equilibrium, titolo nient’affatto casuale), film collettivo co-diretto nel 2004 con Michelangelo Antonioni e Wong Kar-wai, e come raccontava in modo niente affatto allusivo anche il suo sottostimato, semi-documentaristico e anti-utopico dittico su Che Guevara (Che – L’argentino e Che – Guerriglia, 2008): un’icona-tabù per la cultura statunitense, che Soderbergh – anche grazie alla mirabile interpretazione di Benicio del Toro – racconta con una buona dose di pessimismo ma anche di comprensione per la sua parabola umana, prima ancora che politica: una traiettoria esistenziale tra le più iconiche di tutto il XX secolo, naturalmente, ma in fondo pur sempre transitoria come quasi tutte le cose umane. E ogni transazione, in fondo e come il cinema di Soderbergh insegna benissimo, è già di per sé un contagio.

In Presence questa visione del mondo come organismo esposto e permeabile trova forse la sua forma più limpida e spettrale. Sotto la superficie di un horror domestico in soggettiva, si cela l’ennesima radiografia di un sistema infetto: la famiglia, la casa, lo sguardo stesso. Non c’è più bisogno di mostrare il virus, né di nominarlo: è l’aria stessa, ancora una volta, a essere compromessa. Con Presence, Soderbergh chiude idealmente un cerchio e allo stesso tempo lo riapre, rilanciando la sua poetica della contaminazione attraverso una messinscena volutamente opaca e votata all’invisibile: come a dire che oggi, più che mai, ciò che ci perseguita è ciò che non riusciamo (più) a vedere.

*Critico cinematografico siciliano classe 1993, Davide Stanzione è una firma assidua del mensile Best Movie, co-fondatore del dizionario di cinema online Longtake e membro del comitato di selezione del Torino Film Festival. Si occupa di curatela e programmazione per festival e sale d’essai, tra cui il Sulmona International Film Festival e il CineTeatro Baretti di Torino. Ha scritto, recensito e intervistato per varie testate di settore, pubblicando anche saggi all’interno di monografie e riviste dedicate a registi. Ha ideato un percorso formativo sul linguaggio filmico e sulla critica cinematografica per studenti liceali, ed è stato co-curatore del SiciliAmbiente Film Festival e moderatore dei dibattiti al festival Roseto Opera Prima.

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