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Intervista
“Ho fatto Enzo per lui”: Robin Campillo e le ultime parole di Laurent Cantet

Dal 28 agosto al cinema, Enzo è stato l’ultimo film di Laurent Cantet. Il ricordo di Robin Campillo in una commossa e vitale intervista.

Di Carlo Giuliano*

Un film di Laurent Cantet, diretto da Robin Campillo”. Recitano così i titoli di Enzo, dal 28 agosto al cinema. Una dicitura atipica, in cui raramente vi ricapiterà di imbattervi. Perché Enzo doveva essere – ed è a tutti gli effetti – l’ultimo film del regista francese Laurent Cantet, scomparso prematuramente l’anno scorso, all’età di 63 anni, dopo una lunga malattia. È stato il co-sceneggiatore e collaboratore Robin Campillo, già autore di 120 battiti al minuto, a prendere in mano la regia e finire il film in ricordo dell’amico di una vita.

Uno sguardo dolce su un momento impetuoso, l’adolescenza, cui Robin Campillo riconosce il valore di “crisi e rivoluzione squisitamente politica”. Ma in qualche modo, Enzo è anche un film che emana sensazioni proprie di quella tensione per la morte, che genera vita. Il protagonista – un bravissimo esordiente Eloy Pohu – vive in una grande villa che affaccia sulle coste de La Ciotat. I genitori – interpretati da Pierfrancesco Favino ed Élodie Bouchez – sono benestanti e ripongono grandi aspettative e attenzioni nel futuro dei loro figli. Ma in piena crisi adolescenziale, Enzo si ribella e va a lavorare come muratore in un cantiere. Lì conoscerà Vlad, un ragazzo più grande (Maksym Slivins’kyj) fuggito alla Guerra in Ucraina, con cui scoprirà primi amori, delusioni, rabbia e desiderio di cambiamento.

Enzo è come ripercorrere con lo sguardo una scogliera altissima battuta dal sole. E trovarci, in cima, un tempio greco. E avere il terrore di scalarla, di cadere giù nel tentativo. È un film che nasce da una morte per parlare di vita, di chi resta per ricordare chi non c’è più. È Robin Campillo che ricorda Laurent Cantet.

Enzo è un coming-of-age capace di risuonare altrettanto bene ai giovani come agli adulti, ai figli come ai genitori. Da dove trai questa sensibilità e comprensione nei confronti dell’adolescenza?

Ci abbiamo lavorato e riflettuto molto con Laurent, perché io sono padre come lo è stato lui. Quindi abbiamo assistito personalmente a questo genere di crisi adolescenziale che il film racconta. Ma io sento di non essere mai uscito del tutto dalla mia adolescenza. [Ride] Anche invecchiando sono rimasto fermo lì.

[Scherzando] Non volevo darti del vecchio.

[Ride] Assolutamente. Ma più vecchio di te di sicuro, ahimé. Quanti anni hai?

Ventisei. 

Molto giovane, quindi sei più vicino al protagonista e puoi capirlo: è un momento cruciale della nostra vita, volevamo rendergli giustizia. Molti non capiscono quanto politico sia, quel momento. Una vera e propria crisi politica che non è solo crisi dell’adolescente, ma tutto intorno all’adolescente, perché ciò che vive crea per conseguenza un vento di rivoluzioni politiche, porta chi gli sta intorno a interrogarsi. Insisto sul termine, “politico”, perché ha tutto a che fare con il proprio corpo, l’identità, l’autopercezione e affermazione di sé, l’emancipazione. Attraverso la scoperta della propria sessualità si scopre il proprio corpo, l’autonomia del proprio corpo e i limiti rispetto ai corpi altrui. E quindi l’adolescenza genera domande su te stesso e verso l’esterno; ma trovare poi le giuste risposte, quello è difficilissimo. Questo impulso al rinnovamento è accompagnato allo stesso tempo da pensieri oscuri, ombrosi. Volevamo che il nostro protagonista racchiudesse tutto quello strano paradosso che è l’adolescenza.

A questo punto, voglio sapere tutto del giovane che avete scelto per quest’onere. Eloy Pohu è una scoperta, come l’avete scovato? 

Cercavamo un nuotatore, vista l’ambientazione del film. E lui era sul punto di sfondare come nuotatore professionista. [Scherza] Ma fortunatamente per il film non c’è riuscito. L’abbiamo scoperto perché aveva accompagnato il fratello per il provino, e come sempre accade nel cinema – l’uomo sbagliato nel posto giusto – non eravamo sicuri all’inizio. Avevamo chiesto loro un’improvvisazione ed era andata piuttosto male. Ma c’era qualcosa in questo ragazzo, in Eloy, che era così interessante, così misterioso. Ma al contempo aveva una grande padronanza di sé, mentre parlava sembrava quasi sognasse. Era come una mistery box. Eravamo sbalorditi ma anche un po’ preoccupati, perché non era così bravo a recitare, a primo impatto. In contemporanea avevamo trovato il nostro Vlad (Maksym Slivins’kyj), così ho proposto a Laurent di testarli insieme per un giorno (perché Laurent era già molto indebolito dai trattamenti per la sua malattia). Gli abbiamo fatto provare delle scene, li abbiamo fatti interagire sul set del cantiere, abbiamo testato quanta chimica e desiderio ci fosse fra loro, come Eloy avrebbe guardato Maksym.

Cosa ti ha sorpreso tanto da capire che Enzo dovesse essere lui?

Beh, a un certo punto abbiamo provato una scena in cui io ho interpretato il padre e lui doveva avere uno scatto d’ira durante la discussione. E lui mi disse: “Io non mi arrabbio mai. Non so neanche come si faccia”. Al che gli dissi: “Beh, se sarai nel film dovrai comportarti come un attore, servirà un po’ più di questo”. Ma il risultato è stato ancora più interessante, perché non è apparso come il tipico adolescente che va in escandescenza. La sua rabbia somiglia più a un enigma. E alla fine si è trasformato in un professionista, era talmente dentro la parte da criticare certe linee di dialogo, sostenendo che il personaggio non si sarebbe comportato così – [scherza] cosa che non è che mi facesse piacere – ma ecco: si è sentito molto vicino a lui. L’ha fatto suo.

E Pierfrancesco Favino? In Italia lo diamo quasi per scontato, dimentichiamo che attore incredibile sia a livello internazionale. Qui recita in perfetto francese. Com’è stato lavorare con lui?

Io e Laurent abbiamo sempre saputo che a un certo punto avremmo voluto lavorare con Pierfrancesco. Lui è la versione italiana di Isabelle Huppert, può fare qualsiasi cosa. L’avevamo molto amato ne Il traditore 

…di Marco Bellocchio, stupendo.

[In italiano]: “Esatto, bellissima pellicola!”. E così ci siamo detti: “Perché il padre non può essere italiano? Certo che può esserlo!”. Laurent andò a Roma per incontrarlo e lui accettò, ma anche dopo che Laurent è morto si è detto felice di rimanere a bordo. Sono andato a Cannes 77 (dove lui era in giuria) per ringraziarlo, perché non era scontato. Lui ha una così grande personalità che non ha bisogno di strafare quando recita, buca di suo. Ma ecco che anche lui, come Eloy, mi dice che nelle scene in cui discutevano non voleva essere sempre così arrabbiato. Che aveva interpretato tanti personaggi negativi e ora voleva essere buono: “Just once”. Un buon padre, non un qualche altro stronzo. Così abbiamo provato una scena come diceva lui. E per me il risultato è stato ancor più inquietante. Gli ho detto: “Se piace a te, piace a me. Ma ti assicuro che non stai ottenendo quello che speri. Sembri più un pervertito”. D’altronde, il personaggio stesso ha delle zone grigie. Sembra un padre moderno perché cucina e fa il bucato, ma se ci pensi, fare il bucato gli offre la scusa per entrare nella stanza del figlio e perquisirla. Anche solo la casa in cui abitano, tanto bella e piena di vetrate a tutta altezza, gli permette di spiare tutti, diventa come il famoso “panopticon”, il modello di carcere ideale.

Quindi la ragione sta un po’ in ambo le parti? In Enzo come nel padre. 

Esatto. Per me e per Laurent, è sempre stato molto interessante vedere e ascoltare come persone diverse abbiano opinioni radicalmente opposte sul comportamento di un personaggio. Per i più giovani, il padre di Enzo risulta troppo intrusivo, troppo pressante e dominante. Per questo Enzo gli parla di Vlad, come a dire: “Tu non possiedi il mio corpo, perché appartiene a un altro”. D’altronde, quelli della mia generazione dicevano: “Ma che bravo padre! Così premuroso nei confronti del figlio”. Ecco, Pierfrancesco è un attore così talentuoso da riuscire a rendere questo padre, al contempo, amorevole e ombroso in ogni azione che compie. 

Hai citato più volte la perdita di Laurent, quindi mi permetto di chiedertelo: ho come avuto la sensazione che tutto il film fosse pervaso da un lutto, come una tensione per la morte, anche se poi non muore nessuno. Al di là delle conseguenze dirette, la malattia di Laurent ha avuto un’influenza sul tuo processo creativo e sui motivi per cui stavi facendo questo film? Come un’elaborazione del lutto.

Hai ragione. Come saprai, io e Laurent abbiamo lavorato insieme per anni. E quindi, quando si è ammalato, fare questo film è diventato un modo per stare più vicini anche quando poi non siamo potuti esserlo più. Quindi non sbagli, il film suscita quella sensazione. Ma allo stesso tempo, tutto il film è come incorniciato dal sole, emana luce, come una chiesa, un tempio greco, un luogo mistico. Dopo la morte di Laurent, volevo che il film diventasse un giubilo di realtà. Ma di nuovo, dici bene, il protagonista porta con sé questa costante tensione fisica per la morte. Si avvicina al bordo delle scogliere e guarda giù, come a tentare l’estremo gesto. È un mettersi in pericolo, ma per riscoprire qualcosa.

La vertigine della morte che ci fa attaccare alla vita.

Esattamente, esattamente. È una cosa tipica dell’adolescenza. Questo mare di possibilità infinite che ti si staglia davanti, e la possibilità di dire “no” a ciascuna di esse. Quindi sì, forse a un livello neanche così conscio, ma ho rappresentato tutto questo, il contrasto fra vita e morte, in ricordo di Laurent. Penso alla nostra ultima chiamata: “Alla fine, sei qui”. È stata l’ultima frase che mi ha detto. L’ho messa nel film e non ricordavo neanche me l’avesse detta lui. Me ne sono accorto solo al terzo montato, che stavo parlando di Laurent. [Ironizza] Che cosa naive

Non è naive affatto. Si percepisce anche senza conoscere la vostra storia amicale e professionale. Anzi, mi colpisce molto tu abbia menzionato il ruolo della luce, la dimensione abbagliante del film. Perché la prima volta che l’ho visto mi è tornata in mente all’istante una canzone di Charles Aznavour… 

“Emmenez‐moi”? 

“Emmenez‐moi, sì! Qualche anno fa ho vissuto anch’io un inverno molto difficile e, ispirato dal ritornello della canzone, mi sono trasferito su un’isola greca perché: “Ho l’impressione che la miseria sia meno dolorosa sotto il sole”. Ha ragione Aznavour? La miseria è più sopportabile in riva al mare?

Mi fa sorridere parlare di questo con un giovane italiano come te, perché il cinema italiano degli Anni ’60 e ’70 è costantemente incorniciato dal sole. Quando vedi film come Accattone e Mamma Roma, sono quasi accecanti in tutta la loro luminosità, come delle rovine a mezzogiorno. Amo quella canzone di Aznavour ed è molto vicina al film, hai assolutamente ragione, ma non solo per il “Paese delle Meraviglie” di cui parla. C’è una certa disperazione in quella canzone, di qualcuno che vuole uscire dalla propria condizione ed è disposto anche a mettersi in pericolo per riuscirci. È come una speranza, ma una speranza nerissima. E questo risuona molto in Enzo. Ma ecco, sorrido all’idea che tu, da italiano, pensi ad Aznavour e io, da francese, pensi al cinema di Pasolini. Tutto questo viene dal vostro cinema. In Accattone ti giri e trovi rovine antiche a ogni angolo, ma anche gli edifici più moderni somigliano a rovine decadenti.

Non sai che fatica costruire la metropolitana, ogni volta che scaviamo troviamo qualcosa.

[Ride] Tuttavia, sono bellissime e luminose.

Un’ultima citazione in prestito, se mi permetti. Luca Guadagnino dice sempre che il suo cinema “non racconta storie d’amore queer, ma storie d’amore punto”. Ritrovo la stessa visione in Enzo, quindi ti chiedo: nella tua opinione, è questo il modo in cui auspichi che le storie queer vengano ritratte, nel cinema del futuro? Normalizzandole, abbracciando tutti, spettatori queer e non.

A dirla tutta, stupirà sapere che non sono d’accordo con quest’idea che il cinema debba essere uno spazio di rappresentazione. Nel senso: deve essere innanzitutto uno luogo di incarnazione, che non è esattamente la stessa cosa. E la differenza sta nel fatto che, per me, il cinema parla di metamorfosi. L’identità è certamente un tema, ma non deve essere un tema obbligato, non deve essere inquadrata di netto. Mentre scrivevamo il personaggio di Enzo con Laurent, non ci siamo posti il problema che fosse gay, bisessuale, queer, fluido? Non ne avevamo idea. Lui si innamora di Vlad per tutto ciò che Vlad rappresenta, il fatto che provenga da un mondo che gli è completamente distante. Enzo è innamorato dell’idea di mascolinità che rappresenta, guarda i video dei soldati perché prova una tensione verso quell’idea di maschio.

Come una sorta di cameratismo?

Anche, sì. Il punto è che non volevo idealizzare nessuno, perché non puoi farlo quando fai cinema. Non si tratta di mostrare buone rappresentazioni della comunità LGBTQIA+, ma di dare ai loro personaggi la giustizia e la complessità che si meritano, come qualunque altro personaggio. Di metterli di fronte al pericolo, alle loro contraddizioni, e lasciarli liberi di reagire di fronte a quelle contraddizioni nel modo meno bidimensionale possibile. Quando ho fatto 120 battiti al minuto, sì, era un film di forte rivendicazione omosessuale. Ma il cinema rimarrà sempre e comunque politico, che tu insista o meno sulla rappresentazione. Ma se vuoi fare un buon cinema politico (e quindi un buon servizio) devi avere personaggi tridimensionali, e se vuoi avere personaggi tridimensionali devi lavorare innanzitutto a partire dall’intreccio, la fiction. È così che i tuoi film e i tuoi personaggi guadagnano di realtà. Non so come sia da voi, in Italia, ma il pubblico qui in Francia è abbastanza d’accordo con questa visione.

Credo anche da noi. È negli Stati Uniti che sono un po’ più suscettibili.

 Per me ciascuno può fare ciò che crede. Se qualcuno vuole definirmi “un regista queer che fa cinema queer”, liberissimi, non mi cambia nulla. Ma ribadisco che non amo questa idea della “rappresentazione”. Non facciamo film per rappresentarci, non facciamo film per scusarci di noi stessi o all’opposto, imbellirci. Siamo complessi, siamo anche oscuri, siamo scale di grigio. Amiamo, soffriamo e moriamo come chiunque altro. Quando ho fatto 120 battiti al minuto, qualcuno si è lamentato perché “ancora una volta il ragazzo gay muore”.

Sì, c’è un grande dibattito sulla ricorrenza del finale tragico nel cinema LGBTQIA+.

Ma perché non si accorgono che per un personaggio che muore, per dire, di AIDS, ce ne sono decine tutti intorno a lui che invece vivono. Insomma: la complessità. Ciascuno di noi è uguale e dissimile rispetto a tutti gli altri. E così, per me, si fa cinema sulla “diversità”: con la diversità.

Grazie. Enzo sarà al cinema dal 28 agosto.

 

*Nato a Roma nel 1999, critico cinematografico e creator passato per web, cartaceo, social media, televisione, radio e podcast. La prima esperienza a 15 anni come membro di giuria per la XII Edizione di Alice nella Città. Dal 2019 si forma presso il mensile cartaceo Scomodo, di cui coordina anche la rete distributiva in tutta Italia. Nel 2022 svolge un master in podcasting presso Chora Media, cicli di lezioni nei licei con il Museo MAXXI ed è il vincitore del Premio CAT per la critica cinematografica. Ha collaborato con le pagine del Goethe-Institut e del Sindacato Pensionati CGIL. Dal 2021 scrive stabilmente per CiakClub, di cui è Caporedattore e principale creator.

Le foto sul set sono scattate da Gilles Marchand, autore della sceneggiatura insieme a Cantet e Campillo.

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