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Le città di pianura, ovvero: le “zingarate” nella commedia all’italiana

Arriva al cinema Le città di pianura, un film rivelazione che ci riporta con la memoria alla grande commedia all’italiana.

Di Carlo Giuliano*

“Zingarata”: zin|ga|rà|ta, ẓin|ga|rà|ta s.f. av. 1810; Beffa ingegnosa, organizzata spec. da più persone e condotta con spirito dissacratore. Nel dialetto fiorentino, il termine zingarata sta ad indicare uno scherzo condotto con un certo spirito anticonformistico e goliardico. Il termine è rimasto relegato alla zona di Firenze fino agli anni ’70. La diffusione del termine nel linguaggio parlato nazionale è dovuta ad una commedia cinematografica di successo di Mario Monicelli, nella quale i protagonisti, un gruppo di amici fiorentini ultra-quarantenni, amanti dello scherzo e dell’allegro vivere, trascorrono il loro tempo ideando e realizzando zingarate ai danni di vittime inconsapevoli.

Questo è quanto si ottiene mettendo insieme un po’ di definizioni dai vari dizionari ed enciclopedie alla voce “zingarata”. Un concetto reso famoso da un film, ma che in realtà affonda le proprie radici e si propaga attraverso tutto il cinema italiano della seconda metà del ‘900, dall’immediato Dopoguerra fino ad arrivare ai giorni nostri. La zingarata è fondamentalmente un antidoto: al lavoro, alla serietà, alla morte stessa. Uno spauracchio da usare alla bisogna come “l’unica cura per non morire, e le cure per non morire sono sempre atroci”. O per usare le parole del film che più fece la fortuna del termine, Amici miei di Mario Monicelli: “Questa è la zingarata: una partenza senza meta e senza scopi, un’evasione senza programmi”.

Da quest’idea prende le mosse il nuovo film di Francesco Sossai, Le città di pianura. Un’opera seconda sbalorditiva, presentata allo scorso Festival di Cannes nella sezione Un Certain Regard dedicata a registi esordienti e nonostante questo, secondo l’opinione di chi scrive – ma anche secondo Il Domani, per citare una fonte più illustre – il film più bello visto in tutta la kermesse. Alla domanda sulle pellicole che hanno ispirato questo viaggio, Sossai cita I Vitelloni e Il Sorpasso, due pilastri della commedia all’italiana. Da qui l’idea: ripercorrere a ritroso questo viaggio attraverso la zingarata e le sue evoluzioni nel cinema italiano, che partendo dal 1953 ci porta direttamente al 2 ottobre di quest’anno. Data d’uscita, in tutta Italia, de Le città di pianura di Francesco Sossai.

I vitelloni (1953) di Federico Fellini

Rimini, 1953. Facciamo la conoscenza dei cosiddetti “vitelloni”, autoproclamato gruppo di scansafatiche – oggi diremmo “fancazzisti”, o se preferite “oblomoviani” – del tutto refrattari alla voglia di lavorare. Ne fanno parte fra gli altri Moraldo (Franco Interlenghi), Alberto (Alberto Sordi) e Fausto (Franco Fabrizi), leader del gruppo costretto suo malgrado a sposare la sorella di Moraldo su pressione della famiglia, e trovarsi un lavoro. La sua acconciatura “alla Elvis” e i completi a due pezzi fanno pensare a un gruppo di giovani italiani, appena usciti dalla guerra, che sognano America senza potersela permettere. Per loro, la zingarata vale come un “sempre meglio che lavorare

Non a caso, tre anni dopo, Renato Carosone avrebbe riassunto quest’immagine, di uno stile di vita al di sopra delle proprie possibilità, con le parole: “Tu vuò fà l’americano”. E I Vitelloni resta uno di quei rari “colli di clessidra” nella Storia del cinema, in cui si colgono le origini della tradizione precedente, ma si intuisce altrettanto una rivoluzione imminente. In certe scene si vede benissimo che Federico Fellini è andato a scuola dai neorealisti; in certe altre, come nel meraviglioso finale del treno che porta via Moraldo da Rimini (alter-ego del regista), comincia quel cinema onirico, surreale, fatto di maschere, che giustamente si sarebbe guadagnato l’aggettivo di “felliniano”.

Il sorpasso (1962) di Dino Risi

Roma, 1962. È la mattina di Ferragosto quando una Lancia Aurelia B24, modello decappottabile, sfreccia fra le tipiche vie afose e deserte che ben conosce chi, suo malgrado, abbia passato almeno un agosto nella Capitale. A bordo c’è Vittorio Gassman nei panni di Bruno Cortona, trentaseienne mai cresciuto e a cui non piace che gli si chieda l’età. Suona a un campanello e chiede di fare una telefonata, dall’altro capo del citofono c’è Roberto, studente di legge interpretato da un meraviglioso Jean-Louis Trintignant. Su pressione di Roberto, i due intraprendono un viaggio verso il mare e la Toscana, ad altissima velocità, lungo la Via Aurelia. Un viaggio fatto di incontri, scontri e sorpassi. Ma che per un sorpasso di troppo, potrebbe finire in tragedia…

Dino Risi è noto per essere uno degli autori più caustici di questa commedia tragica, come sempre è stata la commedia all’italiana. Ma mai così nera come in Risi. L’anno dopo Il sorpasso è infatti la volta de I mostri, riassunto antologico (e antropologico) della sua ferocia con due immancabili Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi. Ma nel ‘62, appena dieci anni dopo Fellini, la zingarata si è già trasformata in tragedia. Per tutto il film si percepisce che questo road-movie senza metà non potrà finire bene, per i nostri eroi. E cosa ancor più drammatica, qui la “strana coppia” è ancor più strana, perché non è alla pari. Al volante c’è un Peter Pan che sfreccia all’infinito per paura che la vecchiaia se lo prenda. Al posto del passeggero un giovane che, la morte, potrebbe prenderselo prima che questo viaggio di formazione finisca.

Amici miei (1975) di Mario Monicelli

Firenze, 1975. E un altro decennio è passato. Di cinema italiano, di mondo. Dai tempi de Il sorpasso, la Guerra in Vietnam ha fatto in tempo a iniziare e praticamente finire: di sfuggire alla vecchiaia, come per Roberto Cortona, non se ne parla più. Troppo tardi. Ora si combatte per sfuggire alla morte. Ed è per questo che, di fronte alla battaglia finale, la zingarata raggiunge la sua forma ultima e diventa “supercazzola”. Perché a differenza dell’età – che si può sempre dissimulare – la morte prima o poi ti raggiunge: l’unica speranza è confonderla con le chiacchiere. Dev’essere questo, il pensiero di questo gruppo di cinque amici immaginati da Mario Monicelli. 

Ne fanno parte il conte Raffaello Mascetti (Ugo Tognazzi), l’architetto Rambaldo Melandri (Gastone Moschin), il giornalista Giorgio Perozzi (Philippe Noiret), il medico Alfeo Sassaroli (Adolfo Celi) e il barista Guido Necchi (Duilio Del Prete). Insieme vagano di villa, in stazione, in reparto psichiatrico per compiere le loro zingarate e supercazzole – ci limiteremo a citare l’indimenticabile “tarapia tapioco come fosse antani, prematurata”, perché non basterebbe un’enciclopedia per raccoglierle tutte. È lo specchio di un’Italia che lungo la strada ha perso pure le parole, oltre al senno e al portafogli. Ed è il ritratto impietoso di un’umanità che non ha capito una cosa, a differenza di Mario Monicelli: per quanto uno si sforzi, non si esce vivi dalla vita.

La grande abbuffata (1973) di Marco Ferreri

Prima di arrivare all’ultima tappa di questo viaggio (che vedrete, vi rimetterà un po’ di speranza in questa umanità perduta e senza meta), c’è bisogno di fare un passo indietro (ma vedrete, l’ordine non-cronologico è voluto e ha un senso). Perché prima di ritrovare la speranza, la forza vitale che può scaturire da una zingarata, bisogna toccare il fondo dell’umano. E quel fondo si tocca in verità due anni prima di Mario Monicelli, in un film che non ha quasi più nulla della commedia (se non quella grottesca, ai suoi massimi livelli) e con un gruppo di sodali che non vuole più sfuggire alla morte: semmai la insegue. Accolto al Festival di Cannes tra fischi e indignazione, pesantemente tagliato dalla censura in patria, La grande abbuffata rimane come uno dei capitoli più estremi e decadenti del cinema italiano del secolo scorso. Un film per cui valgono a pieno diritti gli aggettivi “gargantuesco” e “pantagruelico”.

Con Amici miei, il film di Marco Ferreri condivide Ugo Tognazzi e Philippe Noiret, cui si aggiungono Marcello Mastroianni e Michel Piccoli. I volti nobili del cinema italiano e francese di quegli anni, che prestano i loro corpi (e i loro nomi reali) per questa mattanza dell’abbondanza. Insieme compongono un quartetto di uomini dell’alta società, che a forza di annoiarsi prendono una decisione: rinchiudersi in una villa fuori Parigi, riempirla di donne e di una quantità incalcolabile di cibo, e mangiare fino a suicidarsi. È la zingarata finale, quella che accoglie la morte perché non ne può più di una vita in fuga. E La grande abbuffata è molto più vicina al cinema politico italiano di quegli anni, alla denuncia morale della classe dominante portata avanti da autori come Elio Petri e da film come Todo Modo. Non a caso, avrebbe raccolto il plauso di uno che preparava, con un altro quartetto, in un’altra villa, lo shock finale: Salò di Pier Paolo Pasolini.

Le città di pianura (2025) di Francesco Sossai

Francesco Sossai ha 36 anni, gli stessi che aveva Roberto Cortona nel film di Dino Risi. Ma per vostra fortuna, ha una visione della zingarata molto più speranzosa, di quella nel film di Marco Ferreri. Perché Le città di pianura è costruito intorno a una grande zingarata, ma non è un road-movie che fugge; piuttosto la insegue, la vita. Mark Renton Approves. E perché come in un circuito di go-kart convertito in rally per Apette Piaggio – sì, c’è anche questo nel film di Sossai, assieme a una dose infinita di dolcezza e meraviglia – il cinema fa il giro e torna indietro al punto di partenza. Ritrova una voglia di vivere. Come i due protagonisti che aprono questo film, Doriano e Carlobianchi, dicendo di “aver scoperto una roba veramente incredibile sulla vita”. Ma non se la ricordano, troppo ubriachi.

Nella loro zingarata alla ricerca del “bicchiere della staffa” – in gergo, l’ultimo drink dopo una serata di bevute prima di andare a dormire (ma l’ultimo non è mai l’ultimo) – coinvolgono Giulio, uno studente di architettura timido, introverso e refrattario alle grandi emozioni. Lui darà loro una meta, la Tomba Brion, quindi uno scopo. E insieme impareranno a vivere la vita, ciascuno alla maniera dell’altro. E si ricorderanno ciò che avevano dimenticato: “Te la aspetti amara, ma è dolce nel finale”. E così è, Le città di pianura. Uno dei film italiani (e non) più belli di quest’anno, con un trio di attori in stato di grazia: Filippo Scotti, Sergio Romano e Pierpaolo Capovilla. Un viaggio nel cuore della Pianura Padana che diventa spazio universale, simbolo di tutte quelle provincie schiacciate dalla modernità, che non sono più campagna ma non ancora metropoli. Un film di luoghi e persone che stavano morendo, che avevano perso il loro scopo e la loro identità, ma che insieme riscoprono l’amore per quella grande zingarata che è la vita. E ci fanno riscoprire l’amore per il cinema.

Se cercate un motivo per continuare il viaggio, perché di questo si parla, andate a vedere Le città di pianura di Francesco Sossai. Dal 2 ottobre in tutta Italia.

*Nato a Roma nel 1999, critico cinematografico e creator passato per web, cartaceo, social media, televisione, radio e podcast. La prima esperienza a 15 anni come membro di giuria per la XII Edizione di Alice nella Città. Dal 2019 si forma presso il mensile cartaceo Scomodo, di cui coordina anche la rete distributiva in tutta Italia. Nel 2022 svolge un master in podcasting presso Chora Media, cicli di lezioni nei licei con il Museo MAXXI ed è il vincitore del Premio CAT per la critica cinematografica. Ha collaborato con le pagine del Goethe-Institut e del Sindacato Pensionati CGIL. Dal 2021 scrive stabilmente per CiakClub, di cui è Caporedattore e principale creator.
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