Il regista iraniano Jafar Panahi parla di Un semplice incidente, vincitore della Palma d’Oro. Un thriller intriso di ironia, proprio come lui.
Jafar Panahi è un bel mistero, anche se lui ridimensionerebbe la cosa. È l’unico regista (assieme ad Antonioni) ad aver vinto tutti e quattro i principali premi cinematografici dei festival europei, anche se lui ridimensionerebbe pure questo: nel 1997 il Pardo d’Oro a Locarno per Lo specchio, nel 2000 il Leone d’Oro a Venezia per Il cerchio, nel 2015 l’Orso d’Oro a Berlino per Taxi Teheran e quest’anno, al Festival di Cannes, la Palma d’Oro per Un semplice incidente, il suo ultimo film in uscita al cinema dal 6 novembre.
È il primo che si trova a dirigere dopo l’ultima delle molte prigionie cui è stato condannato dal regime degli Āyatollāh per via dei suoi film. E non a caso, parla di un ex detenuto che per un incontro “fortuito” si convince di trovarsi davanti l’uomo che, per anni, l’ha torturato in carcere. Al tizio si è rotta la macchina, l’ha portata dal meccanico e il detenuto l’ha riconosciuto per un suono molto distintivo prodotto dalla sua gamba di legno. È lo stesso suono che ha ascoltato per anni, faccia al muro in una cella, senza mai poter vedere in faccia il torturatore. Il primo istinto è quello di portarlo in mezzo al deserto e seppellirlo vivo, ma poi si fa uno scrupolo: e se non fosse lo stesso uomo, che infatti nega tutto?
Così se lo carica sul furgone e lo porta in giro da altri ex detenuti, addirittura una sposa, nella speranza di ottenere la conferma che cerca. Ma per ottenerla, potrebbe arrivare a usare quel metodo subito e imparato per anni sulla sua pelle, lo strumento perfetto quando si vuole estorcere una confessione a un potenziale innocente: tortura. Ed ecco che, come vuole il titolo, partendo da un semplice incidente Jafar Panahi costruisce un film che, fra thriller e commedia tragica, porta a chiedersi questo: cosa faremmo, tutti noi, se ci trovassimo in quella situazione? E di qui il dilemma etico: qual è la differenza fra noi e loro?
Mentre mi faccio queste domande e sto per porgliene a lui, di Jafar Panahi mi colpisce quest’immagine: di un uomo imperturbabile a tutto (figurarsi alle nostre domande) che se ne sta comodamente seduto su un divano, gamba accavallata e posa rilassata, sapendo che di lì a una settimana potrebbe ritrovarsi nuovamente in una cella di Evin, la nota prigione balzata alle cronache per la sua infamia, a causa di questo stesso film di cui ci accingiamo a chiacchierare. Indossa i caratteristici occhiali scuri che impediscono di intravederne le espressioni, ma lui è un libro aperto.
Uno che “fa spallucce” sui rischi del suo mestiere non perché non se sia consapevole – lo è molto più di quanto noi si possa anche solo intuirli – ma perché ha accettato da tempo che, nel suo Paese, fanno tristemente parte del mestiere. Uno che ha capito talmente bene come si ridimensiona (non già minimizza) il potere di un regime, come si spuntano le armi di uomini già piccoli, da far sembrare gli facciano quasi un favore, a imprigionarlo: “Mi danno più tempo e idee per il prossimo film”. Mi ricorda uno che disse: “Condannatemi pure, non importa, la Storia mi assolverà”. Con la differenza che lui sa di non dover essere assolto da niente né dona alle sue risposte la benché minima solennità. E quanto più io gli condivido il mio stupore, tanto più lui mi ridimensiona pure quello.
Negli ultimi anni, il cinema iraniano ci sta rendendo sempre più edotti sul sistema di torture nelle carceri della Repubblica Islamica. Ma la particolarità di Un semplice incidente sta nel fatto di unire thriller e ironia: una tragicommedia. È stata una scelta mirata a raggiungere un pubblico più vasto?
Il centro del mio film è focalizzato sul finale. Il mio obiettivo era riuscire a intavolare un gioco con voi spettatori, a traghettarvi fino a quegli ultimi venti minuti, che vi lasceranno completamente scioccati. Dopo un finale del genere, lo spettatore non potrà far altro che riprendersi dallo shock e chiedersi: “Cosa succederà adesso?”. Ma prima di arrivare a quei venti minuti deve poter, in qualche modo, “sopportare” tutta l’amarezza e il dolore. La vita è piena di sofferenze, ma la si vive – e forse si rende sopportabile – proprio attraversando tutto quel riso amaro che scaturisce dal dolore. Fare finta che non sia così significa perdere il contatto con la realtà. Perciò, il fatto che lo spettatore abbia la possibilità di comprendere la realtà nell’insieme delle sue emozioni, gli permette anche di sentirsi maggiormente coinvolto.
Questo è il primo film che dirige dopo la sua prigionia nel carcere di Evin. Non le voglio chiedere se attinga da esperienze più o meno personali, ma se viva di una domanda che anche lei è arrivato a porsi. E cioè: “Se incontrassi il mio carceriere, che cosa farei?”.
Non è importante. Anche perché nessuno, neanche io potrò mai trovare risposta a una domanda del genere. Finché non te lo trovi davanti, non potrai mai sapere come reagirai, che decisione prenderai. Potresti reagire come il personaggio di Vahid, che viene travolto dalle emozioni del momento e decide di seppellirlo. Oppure potresti reagire come il libraio, che dice: “Non abbiamo bisogno di scavare una fossa a questa gente. La fossa se la sono già scavata da soli”.

Lo sa che anche Mohammad Rasoulof ha reso la stessa metafora, parlando de Il seme del fico sacro? Quest’immagine, anche visiva, che il regime si stia seppellendo da solo. Ma qui lei aggiunge un dilemma etico. Allora, chi ha ragione?
Sai, quando dico che non è importante, mi riferisco a me stesso. Non è importante sapere io, in qualità di Jafar Panahi, ex detenuto, che decisione prenderei o cosa ritenga giusto o sbagliato. Non è il mio ruolo. In qualità di regista, non posso pretendere di far valere per tutti la decisione che prenderei io. Come sempre si dovrebbe fare in un film e nella creazione di una serie di personaggi, bisogna ascoltarli, capirli e lasciarsi guidare nella scrittura da ciò che farebbero loro, dalle decisioni che prenderanno di loro spontanea volontà. Senza giudicare.
Sappiamo però cosa significhi per lei, in qualità di uomo e non solo di regista, dirigere un film. Quali conseguenze la aspettano in Iran. Eppure questo non le ha impedito, appena vinta la Palma d’Oro, di volare subito a Teheran. Un premio del genere può aiutare a fare da scudo “diplomatico” o piuttosto le disegna un bersaglio addosso?
Ci tengo a precisare una cosa: dal primo giorno in cui sono arrivato a Cannes, prima ancora di scoprire se avrei vinto la Palma d’Oro, già sapevo che non appena fosse finito il festival, sarei tornato in Iran. Non vorrei si pensasse che, senza la Palma d’Oro, non sarei tornato.
Non ci è mai balenato. Ma mi ha molto colpito vedere quel video all’aeroporto di Teheran, l’accoglienza dei presenti, gli applausi. Lei non ha parlato, ma la dichiarazione era chiara: “Non ho paura di voi”. Il coraggio di uno infonde forza in tutti gli altri.
La verità? Non potrei vivere in nessun altro luogo che non sia l’Iran. Non sono bravo ad adattarmi ai contesti nuovi. Mi fa molta più paura l’idea di dovermi sradicare e riadattare in una società che non conosco. Non è posto adatto a me. Tutto questo premesso, so che continuare a girare film in Iran mi comporta delle conseguenze, ma non mi tiro indietro.
Avverto nelle sue parole la stessa ironia che ritrovo nel suo film. Ma avverto anche un’altra cosa, questa atarassia che ho ritrovato in bocca di più di un regista iraniano. Capivano, e lei anche capirà, quanto possa suonare incomprensibile alle orecchie di un europeo. Può spiegarcela?
Semplicemente penso: cos’altro possono farmi, che non mi hanno già fatto? Tuttalpiù mi toglieranno il passaporto, mi impediranno di uscire dall’Iran. Ancora una volta. E magari è anche una cosa positiva, così non devo andare in giro, promuovere i miei film, e ho più tempo per concentrarmi già sul film successivo. Certe volte, medito, è una pratica che dovrebbe essere adottata da tutti i governi: impedire ai registi di spostarsi, così si risparmiano i tour, rimangono nel proprio Paese e sono più prolifici, pensano a fare film. Oppure ancora, cos’altro possono fare? Mettermi di nuovo in carcere? L’hanno già fatto, e proprio in carcere mi è venuta l’ispirazione per questo film. Se mi rimetteranno in carcere, mi staranno solo dando l’opportunità di trovare nuove storie da raccontare. Perciò, nulla mi può nuocere a tal punto, in Iran, da poter dire di aver preso chissà quale decisione o aver avuto chissà quale coraggio, a tornare in Iran.

Lei è iraniano, io di origini greche, e la sua è sembra la lezione epicurea: il dolore non ci può nuocere, perché se insopportabile durerà poco, altrimenti è sopportabile.
Probabile dica queste cose anche per autoconvincimento psicologico, per rilassarmi in vista del mio ritorno in Iran.
Un’altra differenza: molti occidentali guardano al cinema come a una forma di intrattenimento, tuttalpiù di scoperta e presa di coscienza su mondi che non conosciamo, come nel caso del suo film. Ma per lei, cos’è diventato il cinema, da che era un giovane studente fino ad arrivare a oggi?
Come ho detto alla Festa del Cinema di Roma, quando ho ricevuto il premio alla carriera da Giuseppe Tornatore, film come Nuovo Cinema Paradiso sviluppano in noi un amore quasi sacrale per il cinema. Non è solo intrattenimento. Tutti noi cresciamo, film dopo film, in un rapporto viscerale con il cinema. Pensando alla mia infanzia, proprio come il bambino di Nuovo Cinema Paradiso anche noi collezionavamo pezzi di pellicola, li guardavamo in controluce cercando di immaginare cosa stesse succedendo nella scena. Ce li scambiavamo come figurine. Tutte queste esperienze hanno alimentato, in me, quel rapporto di sacralità. Ognuno di noi stava scoprendo il cinema, a modo suo, e quando scopri il cinema in questo modo, diventa tuo. Nessuno te lo può portare via, perché diventa parte di te.
Ricorda la prima volta in cui è passato dall’altro lato dello schermo?
Avevo undici o dodici anni. All’epoca si girava su pellicola in 8 millimetri, non c’erano cellulari o telecamere digitali, perciò fare un film era molto più difficile. E nella biblioteca del nostro quartiere c’era una cinepresa con cui si giravano film in 8 millimetri. A un certo punto, mi proposero di recitare in un cortometraggio. Ero un bambino un po’ sovrappeso e alquanto monello, venni scelto proprio per la mia stazza. E per tutta la durata delle riprese, crebbe in me questo desiderio irrefrenabile di mettermi al posto del cameraman e guardare il mondo da dietro la telecamera. Il cameraman non me lo permise, quindi, quando finimmo il film, rimasi con questo rammarico. E quella sensazione, quella frustrazione che ho provato per tanto tempo, di non aver avuto l’occasione di guardare il mondo attraverso la lente, è qualcosa che ti cresce dentro, che ti porti dentro, che ti porta a sviluppare un rapporto speciale, quasi ossessivo col cinema. Non è un rapporto superficiale. Ti entra talmente dentro, o almeno per me è stato così, che nessuna minaccia potrà mai spezzare quel rapporto.

E quando è passato, allora, dall’altro lato della cinepresa?
Appartenevo alla classe operaia, non era facile racimolare i soldi per acquistare una cinepresa. Così ho lavorato, ho messo da parte i soldi e ho acquistato la mia prima macchina fotografica. C’erano ancora i rullini e anche questo aggiungeva un elemento di difficoltà, perché costringeva ad azzeccare ogni volta l’inquadratura giusta. Comprare i rullini, far sviluppare le foto: tutto aveva un costo. Non come adesso, che scattiamo mille foto sul cellulare, scegliamo la migliore e buttiamo tutte le altre. Tutto quell’impegno, quella dedizione che investi nel trovare l’inquadratura giusta, pigiare il pulsante per scattare, ti porta a dare molto più valore alle immagini, al cinema.
Questa noncuranza di cui parla non riguarda solo il cinema. Viviamo in un’epoca di bulimia dell’immagine. Siamo perseguitati da esse, ma nessuna ha più valore. Ecco: senza dover tornare ai rullini, come si crea una controtendenza? Come possiamo ridare valore alle immagini che creiamo e guardiamo?
Esistono due tipologie di cinema, e ciascuno di noi deve essere molto chiaro e onesto rispetto a se stesso e a quale dei due decide di appartenere. Ci sono quei film che partono da ciò che vuole lo spettatore, si limitano ad accontentarlo e soddisfare un desiderio. Sono il 95% di tutto ciò che vediamo. Il restante 5% è composto da coloro che invece di correre dietro allo spettatore, fanno il film che vogliono, e si fanno correre dietro. Quando fai questo tipo di cinema, nessuno può farti correre alle sue regole o farti fermare. Sei disposto a qualunque conseguenza, perché il cinema è diventato la cosa più sacra che hai.
Non c’è neanche bisogno di dire in quale delle due tipologie rientri Un semplice incidente. C’è solo da andare a vederlo, al cinema, dal 6 novembre.