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Perché Mulholland Drive è il capolavoro di David Lynch

Eletto il più grande film dal 2000 a oggi, Mulholland Drive torna al cinema dal 24 al 26 novembre: ma qual è il suo significato?

Di Carlo Giuliano*

Mulholland Drive è il nuovo appuntamento del ciclo The Big Dreamer, la rassegna nata da Cineteca di Bologna e Lucky Red per riportare al cinema tutta la filmografia di David Lynch all’indomani della sua dolorosa scomparsa. Per una tre giorni evento, il 24-25-26 novembre avrete la possibilità di vedere (o rivedere) su grande schermo quello che viene da molti considerato il capolavoro del regista. E se non il suo capolavoro, il manifesto più esaustivo, definitivo e rappresentativo di tutta la sua poetica. 

Nel 2016, un consesso di 177 critici provenienti da tutto il mondo l’ha inserito al primo posto nella lista dei 100 migliori film del XXI secolo pubblicata da BBC. L’influenza di Mulholland Drive ha pochi eguali nella storia del cinema e a distanza di anni ancora si discute del suo significato. Perché come tutti i grandi registi sanno, pretendere di spiegare un film aperto a così tante, possibili interpretazioni, è già ammazzarlo un poco. Lynch ha sempre offerto spiegazioni vaghe sul significato ultimo di Mulholland Drive, perché come ha detto l’attore Justin Theroux: “Penso che sia sinceramente felice che significhi tutto ciò che vuoi”. Mulholland Drive è come la valigetta di Pulp Fiction ed è tutto ciò che, in ultima analisi, è il cinema stesso: tutto ciò che tu voglia.

Ma il suo ritorno al cinema è occasione troppo ghiotta per non lanciarsi, ancora una volta, in un’avventura esegetica di questo capolavoro intramontabile. Una delle letture più interessanti offerte negli anni è quella di Enrico Ghezzi. Ma prima di arrivare a Mulholland Drive bisogna partire dal 1997 e da un’altra pellicola che potrebbe giocarsi il titolo di gioiello della corona nella filmografia lynchana, Strade perdute, accettando il fatto che siano praticamente lo stesso film. Preso in coppia, questo binomio filmico riassume tutto il genio di David Lynch: l’architettura della sua mente, i sogni e gli incubi che ne abitavano le stanze.

Prima venne Strade perdute

Quando uscì nel 1997, Strade perdute fu un insuccesso su tutta la linea (come succede a molti film destinati a diventare capolavori). Fu un flop al botteghino e spaccò in due non solo il pubblico, ma anche alcuni dei più autorevoli critici e interpreti del tempo, fatte salve alcune voci fuori dal coro – su tutte quella di Slavoj Žižek, che giustamente interpretò il film come la messa in scena di un processo psicanalitico – che offrirono molteplici linee interpretative. “Interpretazione” è una parola chiave, e da ripetere al limite dell’esaurimento, per comprendere perché in tanti crollarono di fronte a Strade perdute: Lynch non ha mai preteso che i suoi film venissero “capiti”, ma se c’è una cosa che proprio il cinema di Lynch ci ha insegnato, è quanto difficile sia per la mente umana accogliere ciò che non capisce. Si trattava, appunto, di un ostacolo interpretativo. 

Riassumendo, Strade perdute parla di un uomo (Bill Pullman) che uccide sua moglie (Patricia Arquette) dopo che quest’ultima gli ha dato l’ennesima, umiliante pacca sulla spalla dopo l’ennesimo, umiliante rapporto sessuale incompiuto. Quel gesto è una vergogna troppo grande da sopportare, come quella di essere un uxoricida. Così Fred Madison, rinchiuso nella sua cella, fugge in un mondo in cui può trasformarsi nel personaggio di Balthazar Getty, giovane aitante che a letto non ha nessunissimo problema. In questo mondo, tutto è ribaltato: lui è l’amante, non il marito tradito. E Patricia Arquette diventa la femme fatale, la donzella in pericolo da salvare dalle grinfie del pornografo Dick Laurent (Robert Loggia). Tanto è forte, nella mente degli uomini, il desiderio di non sapere.

Sono emblematici, nell’accoglienza bifronte che il film ricevette, i “pollici opposti” dati dai critici Gene Siskel e Roger Ebert nel loro famoso programma Siskel & Ebert. Il secondo, forse il più grande critico che la storia del cinema abbia avuto, arrivò a dire che Strade perdute non aveva senso, definendolo “più un oggetto di design, che un film”. Anni dopo, pare abbia cambiato idea a seguito della visione di Mulholland Drive. Perché i due film condividono la stessa struttura narrativa, una stessa architettura geometrica. Solo, rimandano a immaginari diversi: il nero e il rosa, l’oscuro e il fiabesco, il mondo del porno e quello “sognante” delle Hollywood Hills. Mondi che, Lynch stava cercando di suggerirci in tempi non sospetti, prima di Weinstein, prima di Epstein, non sono poi così dissimili.

Il Nastro di Möbius

In riferimento a Strade perdute, David Lynch si limitò a suggerire che rappresentasse una “fuga psicogena”, cioè la creazione di un mondo schizofrenico e consolatorio in cui poter essere la versione migliore di se stessi. Patricia Arquette approfondì la cosa, aggiungendo una connotazione valoriale a come Fred Madison costruisce quel mondo: “Per me è una specie di film che guarda le donne attraverso gli occhi di un misogino. Lui è totalmente ossessionato da lei, non può amarla abbastanza, non può averla abbastanza per sé, non può ucciderla abbastanza volte. La uccide ma non riesce a ricordarsene, poi si ricrea come questo giovane virile e la incontra di nuovo. E ora, lei vuole davvero scoparlo ed è innamorata di lui. Ma anche in questa versione, è una lurida puttana. Nella mente di quest’uomo, una donna è sempre il mostro”.

Basterebbe questo a spiegare tutto il film. Ma il critico Enrico Ghezzi, e altri assieme a lui, diedero a questa spiegazione una rappresentazione geometrica: il Nastro di Möbius. Trattasi, in topologia, di una superficie non orientabile, una struttura paradossale ma non impossibile, spesso associata al simbolo matematico dell’infinito. Si ottiene a partire da una superficie ordinaria: banalmente, una superficie circolare a due facce, una “interna” e l’altra “esterna”. Se associamo l’una alla dimensione di realtà e l’altra alla dimensione onirica, nella maggior parte dei film le due facce sono non-comunicanti. Così come per passare dall’interno all’esterno bisogna “bucare” la superficie, allo stesso modo nel cinema serve uno stacco narrativo o di montaggio per passare dal sogno alla realtà: in Matrix, Neo si risveglia nella capsula; in Inception, Dom Cobb si risveglia dai sogni con un “calcio”; eccetera. Così non è nel Nastro di Möbius, e nei film di Lynch.

Il Nastro di Möbius ha una sola faccia che si può percorrere all’infinito senza mai dover “scavallare”; realtà e finzione coesistono in un unico viaggio che ci riporta sempre al punto di partenza. Da qui l’apparente confusione di Strade perdute: non sappiamo mai in quale dei due mondi ci troviamo, elementi del primo compaiono all’improvviso nel secondo e viceversa, e senza bisogno di stacchi di montaggio. Balthazar Getty si sdraia in mezzo al deserto con Patricia Arquette, ma a riemergere confuso è Bill Pullman, destinato a rivivere all’infinito la sua colpa come in un girone infernale, a tornare sempre al punto di partenza. Un citofono, una voce: “Dick Laurent è morto”. A parlare e ascoltare è sempre lo stesso uomo. 

Poi arrivò Mulholland Drive

Come promesso. Ma fissare Strade perdute è già metà della strada per capire Mullholand Drive e perché, sia il capolavoro di David Lynch. Perché ne ha raccolto tutte le inquietudini, l’onirismo, i mostri, la società dell’apparenza (nel senso di ciò che appare e non è) e ha permesso, retrospettivamente, di rivalutare anche quelle strade della sua filmografia che erano andate perdute. Mulholland Drive e Strade perdute sono lo stesso film non solo perché seguono praticamente lo stesso svolgimento e condividono praticamente lo stesso protagonista, ma perché Mulholland Drive è due film in uno: quello che non fu capito, e quello che fu celebrato. Due gemelli siamesi, dove l’uno ha fatto la sopravvivenza dell’altro.

Riassumendo, Mulholland Drive parla di un’aspirante attrice (Naomi Watts) che si scontra con la realtà di Hollywood, si vede surclassata dalla sua amante (Laura Harring) e se la vede rubata dal regista che avrebbe dovuto darle una parte (Justin Theroux). Così ne commissiona l’omicidio al suo spacciatore, rifugiandosi per il senso di colpa nella finzione che vorrebbe: una promettente attrice appena arrivata nel roseo mondo di Hollywood, minacciata da un pericoloso complotto ordito contro di lei. Qui il regista si innamora di lei, è pronto a mettere a repentaglio la sua stessa vita per averla nel film, e Laura Harring si trasforma in una nuova femme fatale che Naomi Watts ha il compito di salvare. Vi ricorda qualcosa, vuoti di memoria compresi? L’unica differenza tra Fred Madison e Betty Elms è forse – ci suggerisce una scena – l’origine della loro schizofrenia: per il primo è costitutiva, per la seconda è indotta da sostanze lisergiche. Ma la fuga psicogena resta, il Nastro di Möbius resta.

Forse Mulholland Drive si rende comprensibile dove Strade perdute non voleva esserlo, perché David Lynch ci ha porto consapevolmente un ramoscello d’ulivo. Ci ha rivelato il trucco dietro l’ipnosi, ci ha mostrato esattamente quando e dove questa comincia, quando e dove dimentichiamo di essere vittime di un inganno. Lo fa nella proverbiale scena del Club Silencio, dove il mago ci avverte e ribadisce che è tutto un trucco, che “No Hay Banda”, che Rebekah Del Rio sta cantando in playback. Eppure finiamo comunque per credere che stia cantando davvero, perché anche questo ha capito, di noi, David Lynch: il nostro insopprimibile desiderio di essere ingannati, prima ancora di capire. Per questo amiamo il cinema e per questo abbiamo amato quello di David Lynch sopra ogni altro: perché ci ha ingannato, meglio di chiunque altro. 

Mulholland Drive è stato il suo capolavoro? Potete condividere o meno. Ma di certo non potete mancare di vederlo al cinema il 24-25-26 novembre. 

 

*Nato a Roma nel 1999, critico cinematografico e creator passato per web, cartaceo, social media, televisione, radio e podcast. La prima esperienza a 15 anni come membro di giuria per la XII Edizione di Alice nella Città. Dal 2019 si forma presso il mensile cartaceo Scomodo, di cui coordina anche la rete distributiva in tutta Italia. Nel 2022 svolge un master in podcasting presso Chora Media, cicli di lezioni nei licei con il Museo MAXXI ed è il vincitore del Premio CAT per la critica cinematografica. Ha collaborato con le pagine del Goethe-Institut e del Sindacato Pensionati CGIL. Dal 2021 scrive stabilmente per CiakClub, di cui è Caporedattore e principale creator.

 

 

 

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