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Intervista
Emanuele Barison: «Reflection in a Dead Diamond è un assalto visivo degno del mio Diabolik»

Intervista a Emanuele Barison: istituzione del fumetto italiano con Diabolik, concept artist e board artist per il film di Hélène Cattet e Bruno Forzani Reflection in a Dead Diamond.

di Davide Stanzione*

Emanuele Barison è un’istituzione del fumetto italiano e il suo nome per gli appassionati e i cultori del disegno è indissolubilmente legato a Diabolik, per il quale ha lavorato dal 1999, su invito di Mario Gomboli, a partire da Il Grande Diabolik. Il suo primo speciale, Matrimonio in nero, uscì nel 2002 e ne sono seguiti poi molti altri, l’ultimo dei quali, Effetti Speciali, è ancora in edicola. Figura fondamentale nella storia letteraria del personaggio, Barison ha introdotto nelle tavole del celebre ladro creato nel 1962 per Astorina dalle sorelle Angela e Luciana Giussani una componente cinematografica, lavorando sulla nettezza delle luci ma anche su un’impaginazione in cui le tavole dei fumetti vengono portate allo stesso grado di dinamismo e intensità psicologica e formale di vere e proprie inquadrature per il grande schermo. Barison ha anche innovato Diabolik nei gadget e nella componente pittorica, portando dentro il personaggio tutta la propria cultura figurativa, a partire da contrasti fortemente espressionisti tra luci e ombre, e diventando il primo fumettista a disegnare Diabolik su fondo nero, con il cosiddetto effetto “noir pieno”. 

Più recentemente, Barison ha messo la sua esperienza al servizio del cinema come concept artist e board artist per il film ora nelle sale Reflection in a Dead Diamond, diretto dai registi francesi attivi in Belgio Hélène Cattet e Bruno Forzani (AmerL’Étrange Couleur des larmes de ton corp, Laissez bronzer les cadavres) , confermando la sua capacità di fondere il linguaggio del fumetto con quello cinematografico.

Emanuele, tu sei un grande nome del fumetto riconosciuto e omaggiato non solo in Italia, dove però forse si fa ancora fatica, perlomeno a un livello “culturale” più ampio, a pensare al fumetto come a un’arte o per meglio dire a qualcosa di strettamente legato al cinema, a un livello anche immaginifico, industriale e produttivo. 

Faccio il fumettista da 40 anni, ho lavorato per Bonelli, Tex, Zagor, Topolino, e in particolare su Diabolik ovviamente. Negli anni ’90 ho disegnato anche per il mercato francese e i registi mi hanno contattato perché volevano un disegnatore di Diabolik: hanno scritto al nizzardo François Corteggiani, mio amico e sceneggiatore tra le altre cose di Blueberry, purtroppo scomparso nel 2022. Loro due hanno una visione precisa, chiara, iconograficamente solida. Una qualità che, purtroppo, manca spesso anche a molti registi italiani: i Manetti, ad esempio, hanno realizzato tre film su Diabolik uno peggiore dell’altro, vedendoli sono stato male io per loro.

Che tipo di registi sono Bruno Forzani e Hélene Cattet? Come sei stato coinvolto in Reflection in a Dead Diamond?

Sono due veri nerd, comunicano solo via email, non prendono l’aereo, sono molto green. La prima volta che ci siamo incontrati è stato in un autogrill a Verona, dove erano diretti per vedere Fabio Testi, che vive da quelle parti. Mi hanno subito colpito per la loro semplicità e gentilezza, ma soprattutto per quanto conoscevano il mio lavoro – cosa che, peraltro, avevo già intuito dalle idee grafiche che mi avevano inviato e dai manifesti che avevano realizzato. Hanno voluto me e basta, anche per quello che rappresento, e questo per me è stato molto significativo. Sono due registi con le idee chiarissime, una qualità rara in questo mestiere. Io poi sono un grande appassionato del cinema di genere degli anni ’60 e ’70: thriller, noir, b-movie, western… E Reflection in a Dead Diamond è pienamente in quella tradizione. A Berlino, secondo me, avrebbero meritato il premio per la miglior regia.

Cosa pensi del film in sé e come ti è sembrato il risultato finale?

Per me è un vero e proprio assalto visivo, di altissima qualità. E non mi sono certo limitato a realizzare il manifesto, come pensano alcuni giornalisti, ma per comprenderlo bisogna conoscere in profondità l’arte del fumetto come Hélene e Bruno. Quando mi hanno contattato, pensavo di dover fare le classiche tavole che si trasformano in frame animati: la vignetta che stringe, diventa fotografia, poi si muove… insomma, il solito approccio fumettistico al cinema. Invece, il lavoro con loro è stato molto più raffinato. Diabolik, se ci pensi, è puro noir, e il noir nasce proprio dal contrasto netto tra bianco e nero. Credevo sarebbe stato un progetto complesso e straordinariamente costoso, ma i registi sono stati estremamente precisi. Hanno usato le vignette per guidarmi, scegliendo location perfette che sembravano uscite direttamente dalle mie tavole: l’albergo, la strada a picco sulla scogliera, l’inseguimento con la Jaguar…

Qual è il tuo rapporto personale con Diabolik e come giudicheresti il tuo apporto alla dimensione figurativa del personaggio? 

Credo di aver portato avanti il lavoro iniziato da Sergio Zaniboni, che per me resta il più grande disegnatore di Diabolik, anzi il miglior disegnatore di donne in Italia tout court. Per me non è Manara, è lui. Era anche un fotografo e si vede chiaramente. Nel 2013 Sky stava lavorando a un telefilm su Diabolik, e per promuoverla realizzò un teaser splendido: le forze dell’ordine entrano in un corridoio pieno di laser, mentre Eva è sul letto, seminuda, con lenzuola di seta, inquadrata dall’alto. Poi si affaccia un uomo, la bacia: lo si vede e al contempo non lo si vede. Diabolik non occorre mai farlo vedere troppo, lì lo si vedeva solo di sfuggita e ne sentivamo la voce. Luca Marinelli è un attore molto bravo, ma con Diabolik secondo me non c’entrava nulla. Anni fa vidi un attore ucraino identico al personaggio, non serviva nemmeno truccarlo. Diabolik poi è alto solo 10 cm circa più di Eva Kant e il fatto che per i film dei Manetti si sia dovuto cambiare l’attore la dice già lunga. Sam Peckinpah, che Dio lo protegga, diceva che il 70% di un film lo fa il casting e come sempre aveva ragione. Pensa a Wolverine e a quanto Hugh Jackman fosse perfetto per interpretarlo, lo guardi e pensi: “È lui”. Si può pensare e dire tutto quello che vuoi degli americani, ma non c’è dubbio che sappiano lavorare e fare le cose per bene.

Chiaramente siamo tutti un po’ “figli” dello Spider-Man di Sam Raimi, che coi suoi tre Spider-Man ha inventato di fatto il cinecomic contemporaneo. 

Assolutamente sì. Come in quel caso, anche qui il fumetto diventa albo, scenografia, inquadratura: si fonde con il linguaggio visivo del cinema, creando un cortocircuito affascinante tra disegno e frame filmico. Silvia Moras mi ha detto che molti studenti del Centro Sperimentale hanno apprezzato tantissimo il film, io invece l’ho visto solo una volta, quando è passato in Concorso alla Berlinale. Vorrei rivederlo in sala, e lo farò presto. Il lavoro di Bruno e Hélène è straordinario: è un metalinguaggio potentissimo, il finale è quasi felliniano, e allo stesso tempo ha qualcosa del cinema di Christopher Nolan. Non era facile spiegare a uno come me, che non viene dal cinema, cosa volevano ottenere. Ma loro sono precisissimi, maniacali nei dettagli. Hanno perfino inserito un omaggio ai miei albi con una carrellata che mi ha davvero colpito. Il risultato mi ha lasciato impressionato e anche un po’ stordito. Alla fine, in realtà, io ho fatto molto poco: ho recuperato materiali dal mio archivio, aggiungendo solo qualche dettaglio, primi piani, sguardi.

Per i registi il film crea la scrittura stereoscopica in 3D, con diversi piani narrativi e tematici e l’effetto rilievo per i personaggi, secondo la lezione di Satoshi Kon. In Diabolik però ho sempre visto anche una dimensione sessuale del Male, legata a dinamiche di potere, seduzione e perfino sopraffazione, un po’ alla maniera hitchockiana. Negli anni 60 gli Eurospy e altri film italiani di serie B utilizzavano il glamour e il lusso della Costa Azzurra, alla maniera di Caccia al ladro, e Bruno è originario di Mentone, pur vivendo oggi a Bruxelles con Hélène.

Bruno e Hélène si sono ispirati — come forse hai letto — a James Bond e a Morte a Venezia di Visconti. E questa fusione di riferimenti funziona perché anche Diabolik, in fondo, è un’opera stratificata. Oggi, tra l’altro, mi capita spesso di incontrare ragazze che hanno letto il mio Diabolik, ma magari non hanno mai sfogliato un albo di Tex. Questo dice molto su quanto il personaggio abbia una presa trasversale e contemporanea, soprattutto grazie alla figura di Eva Kant. Una cosa che manca in Diabolik, però, è l’umorismo. E invece è fondamentale, anche solo per definire meglio i personaggi. Diabolik ed Eva sono belli, ricchi, ladri… alla fine, un po’ stronzi. Per me, Diabolik non può che essere legato al nero, al buio. E credo che sia proprio questo il tratto che ha colpito Bruno e Hélène. Il mio modo di rappresentarlo — netto, essenziale, visivo — ha risuonato con la loro sensibilità. Loro due, poi, sono anche attori, e si sente tantissimo, perché sanno cosa vuol dire entrare e uscire da una scena.

Che rapporto hai con Fabio Testi? Lui è un attore molto versatile, che in carriera ha lavorato coi registi più disparati: Vittorio De Sica ne Il giardino dei Finzi Contini, ma anche con Andrzej Żuławski ne L’importante è amare e sul versante exploitation in Cosa avete fatto a Solange? di Massimo Dallamano e ne Il grande racket di Enzo G. Castellari, per citare un nome caro a Tarantino. Hélène e Bruno hanno citato come fonte d’ispirazione anche Monte Hellman, regista da sempre nel pantheon dei miti tarantiniani, senza contare che nel cast c’è anche Maria de Medeiros. 

Certo, l’autore di Le colline blu, La sparatoria, Strada a doppia corsia… Fabio Testi, in questo contesto, è perfetto: per me è lo Sean Connery italiano, un vero James Bond “de noartri”, con la faccia da b-movie giusta per interpretare un personaggio come John Diman. È un attore naturalmente affascinante, ma anche con un lato oscuro, ambivalente, che lo rende credibile in ruoli da agente segreto o doppiogiochista. In fondo, Serpentik è una specie di Diabolik al femminile, e Bruno e Hélène questo lo hanno colto benissimo. Fortunatamente non si sono limitati a guardare solo il mio Diabolik, ma l’hanno letto, studiato. Hanno visto come, partendo dalla lezione di Zaniboni, io avevo provato ad aggiungerci una dimensione quasi “registica”, un’attenzione particolare al ritmo e all’inquadratura. E infatti anche il giovane John Diman, nel film, è costruito come un omaggio diretto al mio Diabolik. Il punto è che Diabolik non esiste senza la sua ambientazione. È inseparabile da una certa idea di Roma e dell’Italia di quegli anni, è come un whiskey che ha bisogno del bicchiere giusto, della temperatura giusta. Pensa a serie come Starsky & Hutch o Attenti a quei due: sono prodotti figli del loro tempo, e cercare di trasportarli nel presente sarebbe un errore. La musica, i colori, i silenzi, tutto è parte integrante del linguaggio. C’è una scena di lotta in un baretto che, se la vedesse Tarantino, impazzirebbe. Anzi, sono sicuro che vedendo Reflection in a Dead Diamond lo prenderebbe in mano e se ne innamorerebbe. Ma, con tutto il rispetto, per me Bruno e Hélène sono persino più raffinati di lui: meno didascalici, più eleganti. In un film così, la trama non è fondamentale. L’italiano, al cinema, cerca ancora “la storiella”, ma questo film non è per tutti. È per chi ama davvero il genere, un’opera imperdibile per gli appassionati. 

Cosa consigli ai ragazzi che vogliono fare fumetto, o cinema? 

Di studiare, ascoltare, guardare tutto. Oggi alcuni giovani trovano il canale produttivo in un minuto e fanno le loro cose. Ma se dietro non c’è una necessità profonda, un’urgenza espressiva, quella è roba che sicuramente non dura nel tempo e non lascia il segno. Quando per esempio lasci a Coppola la libertà di scrivere le sue cose magari vengono fuori opere assurde, ma anche Apocalypse Now che è uno dei più bei film mai fatti.

Quali sono i tuoi disegnatori preferiti? Quali fumettisti hanno maggiormente ispirato il tuo lavoro e sono per te dei punti di riferimento? 

Per me il più grande fumetto in bianco e nero è Alex Toth. Ogni sua vignetta è un’inquadratura pensata come al cinema: frontale, panoramica, primo piano, tutto ha un senso. Un altro gigante, ovviamente, è Moebius — anche lui con un senso della regia e della costruzione dell’immagine straordinario. Quando serve, mi rifaccio sempre a questi maestri e metto una spruzzata del loro stile per omaggiarli. Disegnatori come Richard Corben, Jorge Zaffino o il miglior Serpieri — che però è più illustrativo — hanno un impatto visivo fortissimo. Zaffino, ad esempio, su Batman o Punisher faceva paura: per talento per me è davvero un mostro sacro, un autore argentino con una forza grafica pazzesca. E poi c’è Torpedo, con i disegni di Bernet: quel segno secco e asciutto mi piace molto e gli devo molto. La scuola latinoamericana — penso anche ad Alberto Breccia — ha raggiunto vette stratosferiche. 

Quant’è complesso disegnare dei personaggi femminili interessanti? Se penso a Eva Kant, è un personaggio che non smette di affascinare anche le nuove generazioni.

I personaggi femminili sono sempre tremendamente difficili, anche Eva Kant non è semplice per niente da disegnare: io ho il problema che se un fumetto è disegnato male non riesco proprio a leggerlo, mi fanno male gli occhi e non posso andare avanti. Il mio riferimento come ti ho già detto è Zaniboni, ma c’è un’altra disegnatrice eccezionale che sto cercando di far riscoprire ed è Pat Tourret, l’autrice di Tiffany Johns, fumetto inglese degli anni ’60: ha una regia e un tratto strepitoso nel raffigurare le donne, secondo me disegna benissimo e quel fumetto, che è tutto per così dire “al femminile”, ha dentro delle donne che sono personaggi fortissimi e davvero modernissimi. I fumetti americani di supereroi invece non mi hanno mai preso più di tanto. Ho rispetto per gente come John Romita o Neil Adams, essendo molto per la scuola degli anni ’60-’70, ma non è il mio mondo.

Su cosa stai lavorando adesso e quali sono i tuoi riferimenti futuri?  

Attualmente sono fondatore e vicepresidente del Palazzo del Fumetto a Pordenone, un progetto che sta facendo molto per la comunità degli appassionati. Grazie al sostegno del Ministero della Cultura, abbiamo realizzato un lavoro importante che si riflette anche nella candidatura della città a Capitale Italiana della Cultura 2025. Nel dossier vincente, infatti, il fumetto ha avuto un ruolo centrale, con tante immagini e riferimenti presenti. A Pordenone si respira una vitalità culturale giovane e autentica, che nasce proprio dal fumetto e dalla musica. Penso ai Prozac+, al movimento Great Complotto e ai Tre Allegri Ragazzi Morti, capitanati da Davide Toffolo — che non è solo un musicista, ma anche un fumettista e mio vicino di casa. Nel Parco Galvani abbiamo creato un vero e proprio mondo: una galleria enorme, ospitata in una villa ottocentesca immersa nel verde, che è una vera rarità. Se confrontata con le realtà europee, è qualcosa di unico, soprattutto se si pensa che Pordenone è una città con una vocazione pseudo-industriale. Eppure, per storia e tradizione, è anche la capitale italiana del punk.

*Critico cinematografico siciliano classe 1993, Davide Stanzione è una firma assidua del mensile Best Movie, co-fondatore del dizionario di cinema online Longtake e membro del comitato di selezione del Torino Film Festival. Si occupa di curatela e programmazione per festival e sale d’essai, tra cui il Sulmona International Film Festival e il CineTeatro Baretti di Torino. Ha scritto, recensito e intervistato per varie testate di settore, pubblicando anche saggi all’interno di monografie e riviste dedicate a registi. Ha ideato un percorso formativo sul linguaggio filmico e sulla critica cinematografica per studenti liceali, ed è stato co-curatore del SiciliAmbiente Film Festival e moderatore dei dibattiti al festival Roseto Opera Prima.

 

 

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