Tre amiche arriva al cinema: il regista Emmanuel Mouret racconta la sua visione del cinema e dell’amore nel suo ultimo film.
Regista e sceneggiatore dal 1998, ma anche attore nello stesso arco di tempo, Emmanuel Mouret è uno dei punti di riferimento del cinema francese per quanto riguarda la commedia sentimentale un po’ malinconica. Tutti i suoi film si basano su quella felice commistione che una grande fetta di cinema sembra essersi dimenticata, o nei confronti della quale sembra avere quasi una sorta di apprensione: l’unione fra commedia e genere drammatico.
Il suo nuovo film in uscita dal 19 giugno è un evidente ritorno a questa commistione. Con protagoniste Camille Cottin, Sara Forestier e India Hair, vede tre amiche alle prese con i rapporti amorosi. Joan (Hair) deve fare i conti con la fine dell’amore nei confronti di suo marito e con il senso di colpa verso un sentimento improvviso che non può controllare. Alice (Cottin) è convinta che il suo compagno la ami molto più di quanto lei non sia presa da lui, ma potrebbe essere smentita dalla doppia vita di quest’ultimo. Rebecca (Forestier) è l’apparente scapola che in realtà nasconde una scappatella piuttosto scomoda.
Tutte insieme si troveranno a relazionarsi (e alle volte, cambiarsi) con una serie di uomini, fra cui spicca un sempre ottimo Damien Bonnard. Ma come spesso l’amore ci insegna, tante volte è tutta una questione di tempismo. E in ognuna delle loro storie, queste tre amiche mostreranno che il tempismo non è mai dalla loro parte.
Nell’intervista che segue, Emmanuel Mouret parla di amore, della sua idea di cinema, ma soprattutto di un tema che considera il vero centro di Tre amiche: l’onestà, che sia nei confronti degli altri o di se stessi.
Il tempismo ha un ruolo fondamentale nell’amore. Non basta piacersi, bisogna anche trovarsi in momenti simili delle proprie vite, volere cose simili dai rapporti amorosi. Molti usano il “destino” per spiegarlo. Per lei si tratta di questo o di una ragione molto più “reale”, casuale?
È difficile rispondere, perché “il reale” è un concetto così vasto, così ampio, da comprendere tutto lo scibile, tutto ciò esiste. Quindi ho qualche difficoltà a rispondere in modo definitivo, mi sentirei anche abbastanza presuntuoso. Però posso provare a definire ciò che sento, e che poi elaboro nel mio cinema. Mi piace pensare all’arte come a una forma d’interpretazione, più che del reale, delle sensazioni che scaturiscono dal reale. Un musicista interpreta e poi restituisce ciò che sente attraverso la sua musica, un regista lo fa mediante ciò che sceglie di raccontare nei suoi film. Più che del motivo per cui facciamo ciò che facciamo, le ragioni per cui queste tre amiche prendono determinate decisioni, mi interessava raccontare le conseguenze di quelle decisioni, e il modo in cui le protagoniste fanno i conti con esse e con se stesse.
In tutti i rapporti amorosi che vediamo nel film, una regola sembra ricorrere sempre: quando veniamo rincorsi tendiamo a scappare e quando siamo respinti tendiamo a inseguire. Insomma: “In amor vince chi fugge”. Ecco, da studioso, nel suo cinema, dei fenomeni e dei rapporti umani, qual è secondo lei il meccanismo mentale alla base di questo comportamento?
Essendo io un regista e non un antropologo o un ricercatore universitario, non ho la pretesa di riuscire a spiegare un meccanismo così complesso. Sicuramente è un meccanismo cui si assiste molto spesso, ma non è una regola: sono moltissimi i casi in cui le persone si incontrano e si uniscono senza doversi rincorrere o inseguire. La verità è che come cineasti e sceneggiatori, insistiamo su questo meccanismo più con finalità drammaturgiche. Dovunque ci sia un problema più che una risoluzione, una complessità più che un’immediatezza, noi cineasti troviamo l’impulso a raccontare una storia. Il cinema si interessa di come gli esseri umani, malgrado tutte le loro complessità e differenze, riescano alla fine a vivere insieme.
Non crede che un regista possa considerarsi una sorta di antropologo, di studioso dell’umanità?
Ciò che cerco nel mio percorso di cineasta è sempre la varietà, i contrasti, le differenze che si presentano nelle situazioni. Per esempio, le tre protagoniste di questo film hanno idee molto diverse su cosa significhi essere oneste, verso gli altri ma anche verso se stesse. Quello che fa di noi ciò che siamo, che ci definisce rispetto agli altri, sono proprio le nostre differenze, le nostre particolarità. È questo ciò che mi interessa. Probabilmente invece, gli universitari e i ricercatori guardano al generale, cercano di trarre delle regole per analogia. A me invece interessa il particolare, ciò da cui non devi per forza trarre una regola o una formula. Perché credo che ciascuno, nel suo intimo, sente di essere un caso a sé.
“Non c’è bisogno di aggiungere sempre dolore al dolore o tragedia alla tragedia”, è una frase dal suo film. E infatti Tre amiche, anche nei momenti drammatici che pure non mancano, mantiene una costante leggerezza e ironia. Il concetto di commedia drammatica ricorre da sempre nei suoi film: come riesce a coniugare queste due anime del suo cinema?
Sono convinto che ogni regista tenda a replicare, nei suoi film, il cinema che ama. Io sono da sempre un grande ammiratore del cinema classico e quello che mi è sempre piaciuto di quei film era la loro capacità di unire tragico e comico. Di più: comprendono che l’uno non può esistere senza l’altro, che nel creare un film non si può attuare una separazione, perché il cinema racconta la vita e nella vita questi non si presentano come aspetti separati ma profondamente connessi. Prendiamo il più classico degli esempi: la scena di una persona cade. Può diventare molto tragica o molto buffa. Magari entrambe le cose allo stesso tempo. Ecco, secondo me, quello che il cinema non deve mai perdere è proprio la capacità di vedere uno stesso fenomeno da più punti di vista. È questo il vero privilegio e prodigio del cinema: poter vedere e raccontare le cose da angolazioni diverse, e mischiare l’una con l’altra. Alla resa dei conti, io come tanti non saprei decidere se la vita somiglia più a una tragedia o a una commedia. È una domanda che ci poniamo tutti, e forse la risposta è entrambe le cose.
Si cita spesso Woody Allen guardando al suo cinema, ma credo si debba sempre distinguere fra riferimenti consapevoli e quelli che invece appartengono più a una percezione del pubblico. Quindi più che concentrarmi sulle analogie, le chiedo: quale crede che sia una grande differenza nel modo di raccontare l’amore da parte del cinema francese, e del suo cinema in particolare, rispetto al cinema americano.
Come hai detto giustamente, queste differenze risaltano e appaiono molto più chiare agli occhi degli spettatori, che ai miei occhi. Sicuramente e anche inconsapevolmente, un regista tenderà sempre a voler replicare i film che ha amato, ma tenendo anche bene a mente quelli che invece non vorrebbe mai riprodurre. La cosa buffa è che ogni volta che vengo intervistato da giornalisti francesi, mi dicono sempre che il mio non sembra affatto un cinema francese; quando invece vado all’estero, mi dicono che è pienamente nel solco della della Francia. Senz’altro nomi come quelli di Woody Allen ed Éric Rohmer, due registi che amo e che ho studiato moltissimo, mi hanno sempre guidato nel modo in cui hanno messo la dimensione di coppia al centro dei loro film. Quello dei rapporti amorosi è un tema che ricorre quasi come un’ossessione nel loro cinema. Però sono tantissimi i registi americani, e Woody Allen è uno di questi, che vivono di una sensibilità profondamente europea. Nella mia formazione invece, un ruolo enorme l’ha avuto il cinema italiano, giapponese, coreano. Sicuramente delle differenze persistono, ma il bello viene proprio dalla contaminazione fra queste differenze.
Se dovesse condensare questo film in una massima sull’amore, quale sarebbe?
Rispondere così: Sant’Agostino, quando gli si chiedeva di dare una definizione del Tempo, diceva che tutti pensano di sapere cosa sia, ma quando poi si trovano a doverlo spiegare non sanno rispondere. Lo stesso vale per l’amore: un qualcosa che, per definizione, sfugge a una definizione. Ciò che più mi interessava fare in questo film era pormi una domanda sull’onestà. E la domanda è: noi dobbiamo onestà solo a noi stessi, a ciò che vogliamo e crediamo di meritare, oppure anche nei confronti degli altri, degli impegni che abbiamo preso? Se dovessi condensarlo, Tre amiche parla di questo.