Due outsider leggendari e un film che celebra i legami familiari: in Father Mother Sister Brother, dal 18 dicembre al cinema, Jim Jarmusch ritrova Tom Waits.
«E se Tom Waits interpretasse il padre di Adam Driver e Mayim Bialik, che sono dei tipi un po’ inquadrati, mentre lui invece fosse una sorta di bohemien recluso?». È partito proprio da questa suggestione Jim Jarmusch per scrivere (in appena tre settimane) Father Mother Sister Brother, il suo nuovo film già Leone d’oro alla Mostra di Venezia 2025 e finalmente al cinema dal 18 dicembre. Un’antologia familiare jarmuschiana in purezza, tre variazioni sul tema, per dirla (più o meno) con Tolstoj “tutte le famiglie felici sono uguali, ogni famiglia incasinata lo è a modo suo”, tre storie di legami un po’ imbarazzanti (come a volte soltanto quelli di sangue sanno essere), ma anche divertenti e in qualche misura tragici. Un trittico che cresce emozionalmente e diventa un unico film, con Waits a fare inevitabilmente da trascinatore.

Ma Father Mother Sister Brother non è solo “il nuovo film di Jim Jarmusch con Tom Waits”: sembra quasi il punto di arrivo naturale del loro rapporto, una storia che nasce letteralmente dall’idea del regista di mettere il suo partner in crime in una specifica configurazione affettiva: un padre un po’ ferito e un po’ istrione, incalzato da due figli che sono il suo esatto opposto. «Eravamo al primo giorno di riprese», ha ricordato il regista al Lido. «Adam e Mayim sono molto precisi, rigorosi. Tom no. Alla fine della giornata lui mi ha preso da parte: “Jim, hai ingaggiato due killer professionisti. E io che faccio?”. Gli ho risposto: “Tom, tu fai a modo tuo, andrà benissimo”. E ha funzionato. Gli altri seguivano la sceneggiatura parola per parola, Tom improvvisava. E alla fine tutto si è incastrato».
Come scrive Barney Hoskyns nella biografia di Waits, Lowside of the Road, la bromance tra Jim Jarmusch e Tom Waits inizia a metà anni Ottanta a una festa di Jean-Michel Basquiat. Il regista l’ha raccontato di recente: si incontrano, si mettono a parlare e passano la serata saltando da un club di New York all’altro. Sono le fondamenta di una relazione che ha sempre avuto qualcosa di sfuggente e malinconico: «Io e Tom abbiamo un’estetica affine», ha spiegato Jarmusch sempre a Hoskyns. «Un interesse per le persone che stanno ai margini».

Fotografati da Deborah Feingold nel 1985
Il film che cementa questo legame è Daunbailò (1986), la neo-beat noir comedy in bianco e nero ambientata tra New Orleans e le paludi della Louisiana, con Waits nei panni di DJ disoccupato incastrato per un crimine che non ha commesso e che si ritrova in una tetra prigione con un viscido pappone di nome Jack (John Lurie) e un turista italiano (Roberto Benigni). È la quintessenza del cool cinematografico e, per Waits, segna il passaggio da supporting eccentrico (prima ci sono stati l’esordio con Stallone e, soprattutto, Coppola) a protagonista: la biografia di Tom racconta anche che fu scioccato dall’offerta di interpretare uno dei lead del film. Ma d’altronde Jarmusch aveva scritto quella parte appositamente per lui. È un nuovo inizio di carriera per Waits, senza contare che, all’inizio e alla fine del racconto, sentiamo proprio due pezzi suoi: Jockey Full of Bourbon e Tango Till They’re Sore, dal disco della consacrazione Rain Dogs, che il film ha cristallizzato nell’immaginario cinematografico. Di Tom Waits e di Jim Jarmusch.
Lo stesso cantautore, anni dopo, definirà Daunbailò «come un episodio russo neo fuggitivo di The Honeymooners», il tipo di sintesi assurda e perfetta che ti aspetti da Tom Waits: comica e tragica, proletaria e stralunata. C’è un altro ricordo che Jarmusch tira fuori spesso, e che sembra quasi una scena tagliata da Daunbailò: durante le riprese, la produzione noleggia una Jaguar nera per qualche inquadratura. Di notte, i due brothers in art “rubano” le chiavi dall’ufficio e girano per New Orleans ascoltando l’audiocassetta di Julie London che canta Cry Me a River; per tre notti di fila, sempre e solo quel brano. Alla terza, Jim prova a protestare: “Tom, ma abbiamo solo questo pezzo…”. La replica di Waits: “Jim, di cos’altro abbiamo bisogno?”.

In un vecchio Q&A pubblicato sul sito della sua etichetta, viene chiesto al bohemien di Los Angeles se ha una massima di vita: «Jim Jarmusch una volta mi ha detto: “Fast, Cheap, and Good… pick two. If it’s fast and cheap it won’t be good. If it’s cheap and good it won’t be fast. If it’s fast and good it won’t be cheap. Fast, cheap and good… pick two words to live by”» (traduco: “Veloce, economico e fatto bene… devi sceglierne due. Se è veloce ed economico non sarà fatto bene. Se è economico e fatto bene non sarà veloce. Se è veloce e fatto bene, non sarà economico. Veloce, economico e fatto bene… puoi scegliere soltanto due parole”).
È un mantra produttivo e allo stesso tempo una dichiarazione di poetica. Jarmusch stesso preferisce impiegare tempo a improvvisare con i suoi attori, girare spesso di notte e costruire intere storie su vibe più che su trame nel senso didascalico del termine. Waits, che viene da un’altra famiglia di randagi – quella dei bar californiani, dei pianoforti sgangherati e dei personaggi che sembrano scritti da Bukowski – riconosce immediatamente un’anima affine, quella di Jim: l’amico che ti dà una piccola regola zen per stare al mondo, non solo per fare film.
Dopo Daunbailò c’è un passaggio spesso sottovalutato ma fondamentale per capire come si è costruito l’immaginario condiviso di Jarmusch e Waits: Martedì notte a Memphis – Mystery Train (1989) è il film in cui Tom Waits non si vede mai, si sente soltanto. È lo speaker notturno di una stazione radio che pare trasmettere direttamente da un motel fuori dal tempo. Attraversa tutte e tre le storie come un fruscio, un DJ fantasma che manda brani country, rockabilly, blues, e ogni tanto interviene con quelle sue microfrasi meravigliosamente trascinate: «Tom era perfetto perché non dovevo spiegargli assolutamente niente», ha dichiarato Jarmusch anni dopo. «Sapeva già come suonava la notte a Memphis».
Dopo esserne stato il volto e la voce, Waits diventa anche a tutti gli effetti il suono del cinema di Jarmusch. Per Taxisti di notte (1991), il regista gli affida infatti l’intera colonna sonora: le musiche di Tom – un misto di jazz storto, valzer claudicanti, organi e chitarre raccolto nell’album omonimo – diventano il vero collante emotivo tra i taxisti di Los Angeles, New York, Roma, Parigi e Helsinki. Per il tempo del film le due anime di Waits, personaggio e cantore degli outsider, si fondono: è come se ogni auto fosse guidata da qualcuno che ascolta i suoi dischi da tutta la vita.
Più tardi, in Coffee and Cigarettes, Waits torna in carne e ossa, stavolta seduto a un tavolo con Iggy Pop nel segmento Somewhere in California: due ex fumatori che festeggiano il fatto di aver smesso di fumare… fumando, tra pause imbarazzate, battute a mezza voce e un jukebox che ironicamente non contiene nessuno dei loro pezzi. Il corto vince la Palma d’oro a Cannes nel 1993 e diventerà uno dei tasselli più celebri del lungometraggio dieci anni dopo, la prova che mettere Jarmusch, Waits e Iggy nella stessa stanza produce inevitabilmente qualcosa di (uso una parola bruttissima, ma tant’è) iconico.

«Tom era esausto: il giorno prima avevamo girato il video di I Don’t Wanna Grow Up e poi aveva fatto un sacco di interviste», ha spiegato Jarmusch. «È entrato, ha buttato la sceneggiatura sul tavolo e ha detto: “Avevi detto che sarebbe stato divertente, Jim. Io qui non vedo una sola battuta”». Dopo che Iggy ci ha lasciati da soli, si è sciolto, ma gli ho chiesto di tenere un po’ di quella scontrosità paranoica: senza, il corto non sarebbe stato così divertente».
E ancora, nel 2019, I morti non muoiono: Waits è Hermit Bob, il misantropo dei boschi che commenta l’apocalisse zombie dalle retrovie e che sarebbe perfettamente a suo agio in una stanza con altri personaggi dalle canzoni di Tom, come Dave the Butcher e Table Top Joe. E non è certo un caso che Jarmusch lo metta nella posizione dell’osservatore esterno: Waits è sempre stato questo per il suo cinema, il tizio che guarda il mondo da un angolo storto e trova il modo di farci sorridere nel momento esatto in cui forse dovremmo preoccuparci.

Torniamo a Father Mother Sister Brother. Perché per rimanere in tema di musica e cinema, cinema e musica, l’unica canzone di cui Jarmusch questa volta ha comprato i diritti, Spooky (scritta da Buddy Buie, James Richard Cobb III, Harry Middlebrooks e Mike Shapiro), è stata scelta – potremmo dire – in modalità Tom Waits, d’istinto e durante un giro in macchina: Jarmusch era a Parigi per le riprese dell’ultimo capitolo e ha chiesto alla sua autista di fargli sentire una canzone. È partita “In the cool of the evening/When everything is gettin’ kinda groovy” ed è finita direttamente nel film, prima intonata da Anika, musicista britannica legata alla scena Sacred Bones e poi, sui titoli di coda, da Dusty Springfield.
Dopo aver conosciuto Jarmusch a un anniversario dell’etichetta a Berlino infatti, Anika ha collaborato anche allo score di FMSB. Prima il regista le ha chiesto di incidere una cover di These Days, il brano di Jackson Browne reso immortale dalla voce di Nico; poi è arrivata l’intuizione di rifare anche Spooky, standard pop che nel film diventa una specie di eco in forma di ghost-story.
Da questi due pezzi nasce un intero disco: Father Mother Sister Brother (Original Music From The Film), 16 tracce per poco più di mezz’ora, pubblicate da Sacred Bones a novembre 2025. È una colonna sonora «atmosferica, ibrida, costruita per lo più in modo improvvisato»: chitarre che sembrano entrare di soppiatto, pianoforti elettronici Wurlitzer o Fender Rhodes, piccole linee vocali di Anika che appaiono e scompaiono. Non una partitura che guida lo spettatore per mano, ma una serie di ombre sonore che sfiorano le immagini e poi arretrano. Lo stesso Jarmusch ha detto che all’inizio aveva persino pensato a un’opera «quasi senza musica», per non disturbare la messa in scena minimalista. Il lavoro con Anika sembra aver cambiato questa idea senza tradirla: la colonna sonora c’è, ma resta una presenza discreta. Come certi equilibri che nessuno in famiglia nomina mai e che pure tengono in piedi tutto il resto.