Father Mother Sister Brother arriva al cinema dal 18 dicembre; intervista a Jim Jarmusch, prima che vincesse il Leone d’Oro.
Prima di vincere il Leone d’Oro. Prima di scoprire che quella stessa giuria della Mostra del Cinema di Venezia cui (parole sue) non avrebbe preso parte – perché non ama premi, giurie e vincitori – l’aveva premiato. Prima di accogliere la notizia con le parole: “Oh, shit”, perché i titoli meritevoli in concorso erano tanti, i temi di urgenza politica notevoli, lui ne era più che conscio e l’ha più volte ribadito in conferenza stampa, impeccabilmente. Perché Jim Jarmusch è così, dice tutto quello che gli passa per la testa esattamente per come gli passa per la testa, eppure se lo si interpreta e si collegano i puntini dei suoi discorsi, risulta sempre inappuntabile. Un po’ come il suo ultimo film, Father Mother Sister Brother, in uscita al cinema dal 18 dicembre.
Prima di tutto questo, abbiamo incontrato Jim Jarmusch per una tavola rotonda a Venezia. Ci ha parlato di tutto e di più, meno dell’origine dietro a questo film. “Non ne ho idea”, scherza, però aveva un’idea assolutamente chiara della struttura antologica in tre episodi e del ricchissimo cast che avrebbe dovuto abitarli. Father, Mother, Sister Brother: ciascun episodio offre uno sguardo d’osservazione asettica su scene di vita familiari e sul difficile rapporto fra genitori e figli.
Nel primo, ambientato a Stati Uniti, Tom Waits è un padre che nasconde qualcosa ai figli, interpretati da Adam Driver e Mayim Bialik. Nel secondo siamo a Dublino, nell’unico giorno in cui una madre interpretata da Charlotte Rampling accetta di vedere le figlie (Cate Blanchett e Vicky Krieps) per un “incontro del tè”. Nel terzo, un fratello e una sorella interpretati da Luka Sabbat e Indya Moore hanno un rapporto assolutamente risolto con i genitori, senonché questi sono morti all’improvviso in un incidente aereo e i due tornano quindi a Parigi, nella casa in cui sono cresciuti, per elaborare il lutto.
È un film che parla di empatia o della sua assenza. E ora capirete perché queste, sono parole chiave, per Jim Jarmusch.
Da dove è nata l’idea per questo film?
Non ne ho idea. L’ho scritto molto rapidamente, in tre settimane, avendo già in mente degli attori specifici. Ma non so da dove mi sia nato. Ho perso entrambi i miei genitori, ma non stavo pensando a quello. L’unica cosa che avevo in mente era di creare una serie di personaggi divertenti per una serie di attori che già avevo in mente. Il primo a cui ho pensato è stato Tom Waits, poi Adam Driver e Mayim Bialik, e mentre scrivevo il primo episodio nascevano idee per i successivi. Tutto qui. Gran parte dei miei film nascono da idee che mi porto appresso già da un po’ di tempo, anni addirittura. Non questo, è stato tutto molto rapido.
Cosa collega le tre storie?
Per me era fondamentale realizzare un lungometraggio in capitoli, cioè una serie di storie che potessero essere autoconclusive, separate, ma che al contempo fossero parte di un discorso organico. Riuscire a bilanciare questo equilibrio è molto più difficile di quanto si possa pensare. Sono storie che puoi raccontare separatamente ma non mostrare separatamente. Se qualcuno ne proiettasse una soltanto, senza le altre, sarei orripilato. Perché ho investito molto affinché si parlassero. Credo che per ciascun episodio, non esisterebbe coinvolgimento emotivo senza gli altri, e in quell’esatto ordine. È stato come costruire un’attenta, calibrata sinfonia composta da diversi movimenti. Ma di certo non sono da considerarsi come cortometraggi o mediometraggi separati. Dopo tutto quel lavoro!

Esistono infatti delle affinità fra i personaggi, molti di loro mentono, nascondono, dissimulano o addirittura truffano i loro figli. È un tema del film, che tutti mentano?
Non mi spingerei a dire che tutti mentono, sono solo un po’ disonesti su alcune cose. Di sicuro non mi interessava giudicare i miei personaggi, non mi piacciono quei film che puntano il dito: tizio è buono, tizio è cattivo. Non ripongo alcun interesse in questo. Le persone sono complesse, le relazioni familiari sono complicate. Tutto ciò che mi interessava era osservarle senza alcun tipo di giudizio. Poi certo, sono incasinati, ma non lo siamo tutti? I rapporti con i nostri genitori sono sempre complicati. Ma di nuovo: non mi interessava nemmeno dire questo. Davvero, non ho idea da dove nasca questo film. Sono piuttosto micro-laboratori di studio dei personaggi. Contesti, scene familiari, per osservare lo strano comportamento degli umani senza per questo doverli giudicare. Volevo solo mettermi lì a osservarli.
E cosa ci dice degli elementi narrativi in comune ai tre racconti? Il Rolex, il sapore dell’acqua o la frase: “Bob’s your uncle”. Che ruolo hanno?
Nessuno in particolare. Semplicemente lo trovavo spassoso, un mio modo di divertirmi e intrattenermi in fase di scrittura. “Bob’s your uncle”, per esempio: è un modo di dire anglosassone di cui venni a conoscenza nel mio primo viaggio in Inghilterra con alcuni amici del mondo del Rock & Roll. Tutti nel Regno Unito conoscono questa espressione. Tu chiedi indicazioni: “Come faccio ad arrivare da quella parte? Beh prendi le scale, giri a destra, poi a sinistra e… Bob’s your uncle!”. È come dire: “Voilà, ecco a te!”. In UK lo usano in continuazione, negli USA non abbiamo idea di cosa significhi, ma per me aveva perfettamente senso: come nel terzo episodio, mia madre era gemella eterozigote con il fratello, mio zio, che si chiamava Bob. Lei e lui erano strettissimi, quasi telepatici, e quando squillava il telefono lei capiva subito: “Questo dev’essere Bob”. Ma anche mio padre si chiamava Bob, mio cugino si chiama Bob. Quindi alle cene di Natale era tutto un confondersi, se qualcuno chiamava Bob: “Bob chi? Bob mio zio o Bob tuo padre? Bob tuo zio!”. Quando poi l’ho sentito in Inghilterra l’ho trovato molto buffo: “Voilà, Bob’s your uncle!”.
Tanto è inconscia la genesi del film, quanto poi sembra estremamente preciso sul cast e i suoi desiderata. Sembra una parte fondamentale del suo processo creativo. Come funziona? Ha qualcuno in mente e gli altri arrivano per associazione di idee?
Esattamente. Mentre sto scrivendo e immaginando il tipo di personaggio, già in quella fase penso all’attore che vorrei lo interpretasse. Scrivo il personaggio pensando all’attore. In questo caso sono partito dal primo episodio, era scritto specificatamente per Tom Waits e da lì sono arrivato ad Adam Driver e Mayim Bialik. Con Luka Sabbat e Indya Moore avevo già lavorato in passato e ho pensato immediatamente a loro, quindi ho scritto il terzo episodio per loro due. Per il secondo sono partito da Cate Blanchett, con cui avevo già lavorato a differenza di Charlotte Rampling e Vicky Krieps, che però ho sempre adorato e con cui ho sempre desiderato collaborare. Quindi sì, molto di quello che scrivo e come scrivo i personaggi parte da: “Voglio lavorare con questa persona”.

Cosa significa per lei, ogni volta, tornare a lavorare con Tom Waits? Ormai è un rapporto che trascende la collaborazione artistica.
Beh, siamo vecchissimi amici, siamo connessi, abbiamo interessi affini e una storia condivisa. Ne abbiamo passate un bel po’ insieme, un sacco di strane avventure. Pensando al primo episodio, Adam e Mayim sono entrambi attori molto precisi, sanno divertirsi e giocare con i personaggi, ma sono molto accorti e metodici nell’approccio. Tom è l’opposto. E il primo giorno di riprese mi prende da parte e dice: “Insomma Jim, hai assunto questa coppia di killer professionisti. Io che c’entro?”. Gli ho detto: “Tom, tu sei il mio uomo, tu lavori alla tua maniera come abbiamo sempre fatto. Fidati. È ciò che voglio da te, niente di più, niente di meno”.
Può raccontarcene una, di quelle strane avventure insieme?
C’è stato un periodo, quando abitava nel Nord della California, in cui Tom possedeva quest’auto, una El Camino, una sorta di pick-up. Sua moglie gli aveva chiesto di andare da un tizio per ritirare la gigantesca ruota di un camion e caricarsela nel retro della sua El Camino. In qualche modo siamo riusciamo a caricarla – sarà pesata un migliaio di libbre – ma il peso era troppo. Mentre guidiamo, guardo Tom preoccupato e gli faccio: “C’è un sacco di fumo che arriva dal retro, qualcosa sta andando a fuoco!”. Le ruote posteriori erano talmente schiacciate dal peso che stavano praticamente andando a fuoco. Lui impreca, ferma la macchina, corre da questo tizio che stava innaffiando le aiuole con la pompa, gliela strappa di mano, spruzza l’acqua sulle ruote in fiamme e quelle ESPLODONO! Ecco, questa è solo una piccola avventura delle tante che abbiamo avuto.
Molto in questo film è affidato ai non detti, ma viviamo nell’epoca dell’oversharing: sui social media condividiamo tutto di noi. Da cosa deriva? Perché, tanto più condividiamo, quanto più rifuggiamo ad affrontare le cose davvero importanti?
È un ottima domanda! Premetto che non sono uno psicanalista…
Però è un autore, un regista, un fine osservatore dei comportamenti umani.
È vero. Penso che anche se fanno mostra del contrario, le persone hanno sempre più paura di guardarsi allo specchio per chi sono davvero. Oppure hanno paura di prendersi del tempo, per riflettere sulle cose e su se stessi. Tutto deve essere istantaneo. I social media ti permettono di costruire una rappresentazione fittizia di te stesso, un simulacro creato a tuo piacimento. Ormai è una cosa normalizzata, ma rischia di farci sedere sugli allori. È molto interessante osservare l’immagine che le persone creano di se stesse sui social e confrontarla con ciò che sono nella realtà. Dice molto di loro, molto più di quanto loro non dicano di se stessi. Io ho una figlia di vent’anni e non riesci a toglierle questi fottuti arnesi dalle mani. Ma mi sono trovato a parlarne con David Cronenberg proprio di recente. Siamo arrivati alla conclusione che forse è una necessità di questa generazione, sentire di poter essere collegata in ogni momento alla propria tribù, ai propri amici. Un po’ come certi insetti: ogni ape da sola può comunicare a enormi distanze e con l’intera colonia. Loro hanno degli organi preposti e forse la tecnologia sta diventando proprio questo, un’estensione dei nostri corpi. Cronenberg ha detto: “Vista sotto una luce darwinista, la nostra comunicazione non evolve abbastanza velocemente da stare al passo con la globalizzazione della società e questi strumenti sono la nostra soluzione per sopperire a questo divario evolutivo”. Forse, in un mondo globalizzato e metropolitano come il nostro, le comunità sono sempre più eterogenee ed estese geograficamente, quindi non avrebbero comunque altro modo di comunicare direttamente.
Ma crede che questo migliori o peggiori la comunicazione?
Entrambe. Da un lato tiene le nuove generazioni unite o quantomeno dà loro la percezione di esserlo, ma dall’altro le disabitua a una comunicazione reale e dà loro dipendenza. Non voglio suonare apocalittico, ma entro dieci anni tutti questi discorsi non conteranno più. La crisi climatica è un fatto, avanza, diventerà l’unico problema di cui occuparsi e tutto questo flusso di dati ha un impatto ecologico enorme. Se non agiamo, dovremo rivedere completamente le nostre abitudini, potremmo dover applicare programmi di austerità tecnologica. L’accesso online potrebbe diventare un privilegio sempre più ridotto a beneficio di una porzione della popolazione. E magari allora ci renderemo conto del valore reale di stare l’un con l’altro.
Parlando della lentezza del film: l’ha definito un “anti-action”. Che tipo di processo ha seguito, nella scrittura e nella regia, per ridurlo ai minimi termini?
In realtà me ne sono accorto dopo, a sceneggiatura chiusa mi sono reso conto: “Aspetta un secondo, non c’è azione, non c’è drammatizzazione, non c’è violenza, sesso o nudità, non c’è neanche un’evoluzione se vogliamo”. Avevo involontariamente eliminato tutto ciò che le persone vogliono, cercano e si aspettano da un film. Me ne sono uscito con quella supercazzola dell’anti-action quando mi hanno fatto notare che mancavano tutte quelle cose, per dare a credere fosse voluto. Ma era semplicemente la natura del film a richiederlo, non voleva né aveva bisogno di niente di tutto questo.

Lei si occupa anche della composizione delle musiche nei suoi film. Come si svolge il processo? E sente delle affinità tra questo e altri suoi film, altri temi che ha già affrontato in passato?
Forse i miei film sembrano simili anche quando non lo sono, perché ho il mio modo di dire le cose, lento, secondo il mio ritmo. Non potrei passare da un genere all’altro come fa Steven Soderbergh per esempio. Ammiro i registi che ne sono capaci; io non lo sono. Io sto ancora cercando di capire qual è il mio stile, a ogni nuovo film imparo qualcosa. Questo ha sicuramente la stessa pacatezza che aveva Paterson, sono entrambi film di osservazione emotiva, ma sono diversi per una ragione fondamentale, di cui mi sono accorto proprio componendo le musiche: Paterson offre la visione del mondo di una persona solamente e quindi è stato facile comporre una colonna sonora che la rispecchiasse. La musica è per me uno dei temi e dei protagonisti del film, come lo era in Dead Man con Johnny Depp, per esempio. Qui era impossibile fare qualcosa del genere, perché nessuno è protagonista e tutti lo sono. Ciascuna delle loro visioni del mondo è protagonista rispetto all’altra. Quindi la colonna sonora suonava sempre troppo malinconica, oppure troppo umoristica, era come se ogni volta fosse sbilanciata verso un personaggio e tradisse la psicologia di un altro. Così ho ridotto la musica all’osso, più come elemento narrativo del contesto circostante: una nuvola che passa, le condizioni atmosferiche e così via.
Ci racconta del suo rapporto con la Mostra del Cinema di Venezia? Avventure, aneddoti.
Una volta sono stato fermato da un’imbarcazione della polizia, ero con Bill Murray e lui si era tolto la camicia in barca per sventolarla in aria. Così ci fermano, fanno per multarci e poi lo riconoscono: “Ah, Bill Murray? Va bene, potete andare ma non rifatelo”. Ero molto preoccupato in quel momento, era il 2003 ed ero lì per la première del mio film Coffee and Cigarettes, ma c’era stato un problema di sviluppo in laboratorio e la pellicola non era ancora pronta. E Bill era lì a comportarsi da Bill, mi diceva: “Non stare a impensierirti! Usciamo, andiamo a fare un giro in barca!”. Lui è sempre stato molto generoso con me. Non è che io faccia molti soldi attraverso i miei film. Ma il successivo, Broken Flowers sempre con Bill, andò molto bene e io avevo un accordo sulla percentuale d’incasso. E non me la stavano pagando, a differenza di Bill. Ogni volta che gli mandavano il pagamento, lui si assicurava per mio conto: “Avete pagato Jim? Ce ne occupiamo subito”. Quei soldi mi hanno permesso di occuparmi di mia madre e tenerla nella sua casa negli ultimi anni di vita.
E come la fa sentire essere di nuovo qui, in competizione per il Leone d’Oro?
Non amo la competizione. Ogni volta che un mio film è in concorso in qualche festival, a Venezia o a Cannes, è sicuramente una cosa buona per il film, per una questione di visibilità, di interesse all’acquisto da parte dei distributori. Ma competere… onestamente? È assurdo. Che ne dite, perché non andiamo in un museo e in mezzo a mille quadri diversi scegliamo il migliore? Poi eleggiamo il pittore migliore, quello che ha usato meglio il colore, quello col pennello migliore! È un po’ assurdo. Ed è il motivo per cui ho sempre rifiutato di far parte delle giurie. Me l’hanno proposto, a Cannes e altrove. Non potrei, non ho idea di come si prenda collegialmente una decisione del genere.

Quest’anno la selezione è molto politica. È preoccupato dalla situazione attuale?
Preoccupato? A dir poco! Vengo dall’America di Trump, sì che sono preoccupato. Non mi sono mai fidato di nessuno che volesse ergersi a suprematista, non mi fido dei politici in genere e di chi insegue il potere e i soldi. Non so neanche cosa pensare di fronte a questa totale deviazione dai valori dell’empatia, della tenerezza fra individui, della diffusione di messaggi positivi nel mondo piuttosto che negativi, aggressivi, violenti. Penso al mio mondo, al panorama del Rock & Roll e a queste piccole rock band pro-totalitarie che suonano nazi-hardcore: sono assolutamente insignificanti nel panorama musicale, indegne di qualunque considerazione, non li ascolta nessuno se non qualche altro gruppuscolo di giovani nazisti skinhead. Questa è la considerazione che riserviamo a gente del genere nel mondo dell’arte, ma così non è nel resto del mondo e l’unica soluzione che ho trovato per me stesso è quella di rimanere empatico, soprattutto nel mio mestiere, come forma di resistenza. Ricordo le ultime parole che mi disse Joe Strummer, il frontman dei Clash, prima di morire. Era mio amico e l’ultima volta che ci siamo visti eravamo a New York, faceva freddo, io avevo l’influenza. Ma era il mio ultimo giorno lì e volevo salutarlo, quindi vado a trovarlo in un ristorante giapponese lì vicino, dov’era con alcuni amici. A un certo punto si scusa con loro, si alza e fa: “Jim non si sente molto bene, lo accompagno a casa con l’ombrello”. E sulla soglia di casa mi dice: “Ricordati, il nostro mestiere consiste nel proteggere l’empatia… e vivere una vita al massimo!”. Sono le ultime parole che mi ha detto, è morto sei settimane dopo. Proteggere l’empatia a ogni costo, è ciò che ho cercato di fare da allora con la mia arte e in ogni mio film. E vivere una vita al meglio, ma quello ora mi viene difficile. Siamo qui, nell’agiatezza, vestiti eleganti a sfilare sul red carpet. Non c’è qualcosa di male in questo, siamo qui a celebrare qualcosa che amiamo, un’arte capace di illuminarci sul mondo. Su quello che sta succedendo a Gaza per esempio: è davanti agli occhi di tutti, è genocidio. Quindi io rimango convinto della capacità, da parte del cinema, di elevarci, emanciparci, metterci al corrente. Ma c’è una contraddizione evidente fra ciò che il cinema mostra e come il cinema si mostra.
Un’ultima domanda…
Tre, sono superstizioso.
[Ci fanno segno che il tempo è finito]. Una breve, la stessa che si fanno i personaggi negli episodi: che sapore ha l’acqua, per Jim Jarmusch?
È il mio drink preferito. È una cosa incredibile che non apprezziamo abbastanza e diamo costantemente per scontata. Per questo mi ritrovo a citarla sempre più spesso nei miei film. Oggi abbiamo questi tycoon tipo Bill Gates, che pensano di poter comprare, COMPRARE la nostra acqua, e privatizzarla. L’acqua è la base della vita, non puoi privatizzarla.
E se dovesse descrivere il suo sapore a un alieno?
Non ho idea! Non credo neanche abbia un sapore. Forse il suo sapore è proprio l’assenza di sapore, è ciò che la rende così buona. La bellezza dell’assenza è fondamentale, l’assenza è ciò che tiene in piedi il mondo. Lo spazio fra ogni atomo, oppure in musica: le pause, le note non suonate, sono quelle che fanno il componimento. Capisci cosa intendo? Io credo che tutto nell’universo sia parte di un’unica coscienza collettiva. Suonerà astratto, ma per me l’acqua è questo: le note non suonate nella melodia dell’universo e dei sapori. Ma cosa ne so io, sono solo un fesso di regista dell’Ohio!
Questo fesso dell’Ohio ci ha appena illuminato su molte più cose di quanto crede, tutte quelle che troverete anche nel suo ultimo film. Proprio quelle che non sapevate di volere: le assenze, di ciò che cercavate. Father Mother Sister Brother vi aspetta al cinema dal 18 dicembre.