Intervista
Ken Loach
The Old Oak
Ken Loach: “La solidarietà è la prima pietra su cui costruire il nostro futuro”

In occasione dell’uscita al cinema del suo nuovo film, The Old Oak, il regista inglese racconta il suo percorso e la sua vita, tra aspirazioni, maestri e le responsabilità di un filmmaker.

Di Gianmaria Tammaro

Ken Loach riesce a esprimersi sempre con una gentilezza incredibile. Quando parla, sorride, accenna a un piccolo movimento delle labbra e se la domanda lo incuriosisce in modo particolare aggrotta la fronte. Tende a stare fermo, seduto dritto. Le mani raccolte in grembo e le caviglie incrociate in basso, tra i piedi della sedia. In alcuni momenti, e sono tanti, si lascia andare. Sembra un bambino: ama i temi che affronta nei suoi film e crede davvero in quello che fa. La sua non è banale retorica.

In The Old Oak, il suo ultimo film, in questi giorni al cinema con Lucky Red, ha raccontato la storia di un paese che potrebbe trovarsi ovunque nel mondo, che ha problemi universali, che parla una lingua di rabbia e insoddisfazione, e che, proprio per questo, appare credibile e vero. Più vero di tanti luoghi che, nella nostra vita, abbiamo visitato di persona.

Ken Loach è un maestro, e non solo per la carriera che ha alle spalle. È un maestro perché è pronto al confronto e al dialogo; perché le cose che dice sono cose che hanno un peso effettivo che lui non sottovaluta mai, nemmeno per un momento. Parla di responsabilità e politica, di nuove generazioni e lotta sociale. Dice che un film può essere tante cose e che sì, può occuparsi anche della nostra realtà. Ciò che può fare la differenza, spiega, è la prospettiva da cui si guarda – e si vuole far guardare – il racconto.

La politica, insiste, non è una casella da barrare, una categoria da aggiungere a proprio piacimento a una storia. C’è o non c’è. Nero o bianco, non grigio. E tutti i film, volendo, possono essere letti politicamente. Per The Old Oak, è tornato a lavorare in una zona che conosce bene. «Quello che volevo provare a fare era raccontare la condizione delle persone che ci vivono oggi».

 

Che cosa ha capito?

«Una delle caratteristiche principali di questo territorio è che, in passato, ha ospitato diverse miniere. Si trova in campagna, lontano dai centri urbani. E così, quando le miniere sono state chiuse, hanno chiuso anche le altre attività, perché non c’erano più soldi. Le famiglie hanno cominciato a trasferirsi e le scuole sono state spostate altrove. Hanno chiuso le librerie, i luoghi di ritrovo, i pub. La gente ha cominciato a sentirsi arrabbiata e tradita. E io e Paul Laverty, lo sceneggiatore con cui lavoro da quasi trent’anni, volevamo raccontare esattamente questo. Volevamo fotografare l’attualità».

E in che modo si fotografa l’attualità?

«“Che cosa può accendere un riflettore su quello che sta succedendo in quella zona?”, ci siamo chiesti io e Paul. La risposta è arrivata dalla realtà stessa, con l’arrivo dei rifugiati siriani che scappavano dalla guerra e che sicuramente non si aspettavano di trovare un paese in ginocchio, con disoccupati e bambini affamati».

Secondo lei, il cinema ha la responsabilità di mostrare e di parlare di realtà?

«È una delle cose che il cinema può fare, e ne può fare diverse. Il problema, oggi, è che manca una vera diversificazione nelle storie. Ci sono filoni precisi, generi che vengono esplorati e prodotti in un certo modo, provando a inseguire un gusto – oserei dire – americano. Perché mostrare il Regno Unito con gli occhi di un turista? Capisco l’interesse che può esserci nel raccontare la Famiglia Reale, ma ci sono tante, tante storie, di cui non sappiamo assolutamente niente».

Come regista crede che i film possano essere politici?

«Ogni film può essere interpretato da un punto di vista puramente politico. Pensi, per esempio, alle opere di Charlie Chaplin. Si può quasi avvertire una prospettiva precisa sul mondo intero. Molti film parlano di persone che fanno determinate azioni, che si pongono domande, che si chiedono chi sono e che vivono in posti specifici».

Che cos’è che fa la differenza?

«Il modo di mettere insieme questi elementi. Perché significa avere la possibilità di analizzare e di mostrare, nella sua crudezza, la società. La politica non è una cosa che si può rinchiudere in una scatola, di cui si può o non si può parlare; la politica riflette quello che siamo, ed è articolata, complessa, vive in aspetti diversi».

In una vecchia intervista si è definito ottimista. È ancora della stessa opinione? O, in questi anni, ha cambiato idea?

«Non si può essere semplicemente ottimisti; è molto più complicato di così. Se ci soffermiamo sul breve periodo, possiamo notare che ovunque ci sono dei problemi terribili ed enormi: dalla trasformazione del lavoro ai diritti dei singoli lavoratori, dalla politica che sembra essere in una crisi insuperabile al riscaldamento globale. Ripeto, sono problemi terribili. E quindi no, non puoi essere ottimista nel breve periodo».

E quindi dov’è che possiamo trovare l’ottimismo?

«Forse sta nel fatto che, alla fine, questo sistema, con le sue regole, le sue storture e le sue contraddizioni, finirà. Deve finire, anzi. Perché stanno distruggendo il pianeta, e una volta distrutto il pianeta non c’è altro. Dobbiamo farci sentire, dobbiamo intervenire; dobbiamo fare qualcosa. Ecco dov’è l’ottimismo: nella possibilità che abbiamo di agire».

Che cosa possiamo fare come cittadini?

«Possiamo mettere in discussione la classe dirigente. Valutarla per ciò che fa o non fa. Voglio dire, capiscono il problema? Capiscono in che situazione siamo? Hanno delle risposte e delle soluzioni da offrire e adottare? Hanno la capacità tattica per proteggere quello che sono chiamati a difendere? Hanno l’intelligenza necessaria per battere l’opposizione?»

Alla fine, The Old Oak sembra quasi essere un film sulla speranza.

«La speranza sta nella solidarietà che, a un certo punto, le persone dimostrano di provare. E lo fanno nonostante tutto: nonostante i problemi, le sfide, le incomprensioni. È una cosa che succede ovunque, e sono sicuro che succede anche qui, in Italia».

Mi dica.

«Quando c’è una famiglia che soffre una perdita, una perdita terribile, una perdita che non poteva essere prevista in alcun modo, ci sentiamo tutti coinvolti. E vogliamo tutti, nel nostro piccolo, dare una mano. E nel film è questo quello che vediamo: c’è un atto di pura solidarietà».

Perché è così importante la solidarietà?

«Perché è la prima pietra su cui possiamo cominciare a costruire e gettare le basi per qualcosa di nuovo».

Altro tema fondamentale di questo film sono i giovani.

«Le nuove generazioni hanno una visione chiara, netta, che con l’età finisce per annebbiarsi. Il protagonista di The Old Oak era un attivista, lavorava in miniera; dava una mano alla comunità allenando una squadra di calcio; poi, con il tempo, ha finito per lasciar perdere, per voltarsi dall’altra parte. Le persone sono così. Perdono energie».

E i giovani, invece?

«I giovani hanno una visione; sono loro che hanno una chiarezza di punti di vista. Le generazioni di oggi sanno che non c’è più tempo. Quando ero giovane io, potevamo perdere le nostre battagli convinti che, subito dopo, ne avremmo vinte altre. Oggi no; oggi non c’è questo lusso. I giovani devono agire, e devono farlo ora. Ed è questo che li sta guidando».

Chi sono stati i suoi maestri?

«Innanzitutto mio padre. Era un elettricista, ha lavorato in fabbrica per tutta la sua vita. Adorava costruire cose e adorava creare; aveva un’abilità straordinaria. E io per questo motivo l’ho sempre rispettavo. Poi ho avuto la fortuna di avere un insegnante di storia incredibile, molto brillante. È stato grazie a lui se ho imparato l’importanza della storia: è fondamentale per chi vuole fare film. Mi ricordo che una volta disse questa frase: la parola radicale condivide la stessa radice di ravanello (questo discorso è stato fatto originariamente in inglese, ndr)».

Che cosa vuol dire?

«Il ravanello è un vegetale, e come tutte le piante è profondamente legato alle sue radici. E anche se sei un radicale, devi porti domande che affondano le radici in qualcosa. Qual è, ora, la questione fondamentale? In che cosa affondano le radici queste domande?»

Secondo lei, in cosa?

«Credo che affondino le loro radici nel conflitto che divide i lavoratori e quelli che guadagnano dal loro sfruttamento».

Qual è la cosa che la fa andare avanti come regista?

«È un lavoro incredibile. Non hai bisogno di un incentivo per continuare a farlo. C’è un punto in cui l’età tende a rallentarti, purtroppo. Ma resta comunque un grande privilegio».

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