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La sala professori
La scuola nel cinema, da L’attimo fuggente a La sala professori

A lungo le aule scolastiche sono state un luogo trascurato dai film. Non sono però mancate eccezioni, alle quali si aggiunge La sala professori di Ilker Çatak, candidato all’Oscar come miglior film internazionale.

Di Emiliano Morreale*

A lungo le aule scolastiche sono state un luogo trascurato dai film. Il passaggio all’età adulta si manifestava soprattutto fuori, in altre esperienze e altri riti di passaggio. E d’altronde la professione del docente e le pratiche didattiche apparivano un tema non troppo allettante. Anche se non sono mancate eccezioni significative. 

Per chi la filma, la scuola è anzitutto un luogo fisico, una serie di relazioni in cui la macchina da presa deve inserirsi: tra i ragazzi, tra i docenti, tra docenti e ragazzi. Un luogo chiuso in cui l’esterno preme, e spesso è infatti centrifugo: dall’aula si esce per scoprire le storie di chi insegna e di chi apprende. In più la presenza fisica dei ragazzi, che, se il regista è accorto, arricchisce o fa esplodere il copione. Se ne accorse benissimo il grande Vittorio de Seta che, esattamente cinquant’anni fa, inventava con Diario di un maestro un nuovo modo di fare cinema e tv, rimasto a lungo isolato, proprio facendo col cinema quel che il suo maestro faceva con l’insegnamento: una pratica aperta, che si riscriveva a contatto con l’energia dei ragazzi.

Negli ultimi decenni, per una bizzarra nemesi, proprio mentre il suo valore come agenzia educativa cala e al suo interno idee e speranze si spengono, la scuola ha cominciato a interessare sempre più il cinema. A volte cercando di replicare, nella classe, l’amalgama tra attori e no, e l’intreccio di finzione e spontaneità (La classe di Cantet). A volte spingendo di più il pedale dei generi, specie la commedia, come hanno fatto vari film italiani e francesi: da noi cominciarono un paio di film ispirati ai libri di Starnone (La scuola e Buongiorno professore), e la serie delle commedie scolastiche, tra cinema e serialità, continua anche oggi. In tutti questi lavori, però, la scuola è spesso uno sfondo e al centro c’è spesso più il docente (specchio degli sceneggiatori e dei registi) che l’allievo.

Nel frattempo, i professori raccontati nei film sono diventati sempre più complicati, pieni di dubbi, a volte inutili o dannosi. Accanto alla linea che dal classico Addio mister Chips (il professore vecchio stampo, che accompagna generazioni di allievi fino alla seconda guerra mondiale) arriva all’Attimo fuggente, mostra il docente-eroe, esempio di vita o liberatore della gioventù, sono sempre più presenti gli insegnanti rosi dai dubbi, messi davanti alle contraddizioni del proprio agire. La sala professori è, in questo senso, un caso estremo, istruttivo di come la scuola sia diventata aliena e perfino inquietante a chi la vede da fuori (e a volte anche a chi la vive da dentro).

Il film di Ilker Çatak, quarantenne tedesco di origine turca, fin dal titolo sposta ancor più l’attenzione sui docenti, e soprattutto sceglie i toni del thriller. Non che accadano grossi crimini, tutto è nelle piccole vicende scolastiche. Un ragazzino accusato di furto, poi invece la professoressa che crede di trovare la colpevole in un’impiegata della scuola, madre di un alunno bravissimo che reagirà con violenza. Ma è il tono (la musica soprattutto, dalle prime sequenze) a creare intorno alla protagonista una paura che non sapremmo ben definire. La paura degli altri e dei propri simili, la frustrazione e soprattutto il non saper cosa fare, fin dall’inizio. 

La professoressa nevrotica e benintenzionata, più di quanto si sia visto in passato sugli schermi, le sbaglia tutte, anzi peggiora la situazione. Un atteggiamento, il suo, che come spesso accade vale come metafora di contraddizioni più ampie del progressismo attuale. L’idea che se ne ha è della scuola come un meccanismo perverso, un sistema che dietro la cortina di un politicamente corretto ipocrita, davanti alle contraddizioni che la razza, il sesso e la classe (quest’ultima la più dimenticata di tutte), conserva un atteggiamento di fondo repressivo, autoritario. La scuola fa paura, ci dice il film: e non per gli allarmismi continui che i media, in una volgare strategia di mistificazione, danno (il lassismo, l’aggressività degli studenti), perché è un luogo che, a forza di essere inutile e autoreferenziale, è diventato un incubo. Un luogo che, anziché liberare le menti, creare spazi di cooperazione e creatività, allena al sospetto, all’ipocrisia, all’irrealtà e alla ferocia.

 

* Emiliano Morreale insegna alla Sapienza Università di Roma e scrive sul “Venerdì di Repubblica”. È stato conservatore della Cineteca Nazionale e selezionatore dei festival di Torino e Venezia. Ha scritto vari libri sul cinema (l’ultimo è La mafia imaginaria. Settant’anni di Cosa Nostra al cinema, Donzelli 2020) e un romanzo, L’ultima innocenza (Sellerio 2023).
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