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Negli anni ’90 stavamo proprio da Dio: Le città di pianura e la Resistenza alcolica dei sogni di provincia

Il film di Francesco Sossai è uno scorcio di malinconia tutta italiana, ma in cui i tre protagonisti attraversano il paesaggio veneto come in un road movie americano: una piccola guida alla ricerca della sopravvivenza, nelle pieghe della marginalità.

di Davide Stanzione*

Carlobianchi (Sergio Romano) e Doriano (Pierpaolo Capovilla), i due cinquantenni protagonisti de La città di pianura di Francesco Sossai, sono sempre in cerca dell’ultimo bicchiere, come sottolinea dolcemente ma anche impietosamente la sua regia, fatta di primi piani stretti intenti a cogliere dei volti solcati dalla vita di strada (in particolare quello di Capovilla, ex frontman de Il Teatro degli Orrori, particolarmente rugoso e segnato), vissuta rigorosamente una bevuta “di commiato” dopo l’altra. Il loro incontro con Giulio (Filippo Scotti), timido studente di architettura, dà vita a un road movie a tre voci ambientato nella pianura veneta, in particolare nella zona Alto-Veneta, tra Venezia, Altivole e i paesi della provincia di Treviso.

Le strade perdute della provincia

All’inizio de La città di pianura c’è un momento berlusconiano, in cui un Cavaliere arrivato in aeroplano, come ne Il caimano di Nanni Moretti, elargisce Rolex come regalo aziendale. Ha il volto di Roberto Citran ed è una perfetta nemesi, istituzionale e aziendalista, dei personaggi di questa ballata crepuscolare, sdrucita e malinconica, segnata da un’idea profondamente dolente della vita in provincia, già hard boiled di suo senza che intervengano crimini, misfatti e delitti sordidi.  

Un non-luogo all’insegna dello stracciamento del paesaggio, come se fossimo in un film dello statunitense Jim Jarmusch o del finlandese Aki Kaurismäki, in cui l’alcol è sempre lì a disinfettare le ferite dell’esistenza, come se il senso della vita si potesse ritrovare solo nelle pinte in grado di silenziare il rumore assordante dei sogni non realizzati, rimasti incastonati come pietre preziose e impolverate in occhi molto spesso troppo vitrei, perfino lucidi, resi acquosi e commossi probabilmente anche dal continuo alzare il gomito. 

Le strade perdute della provincia profonda italiana sono infatti illuminanti come se fossimo in un film americano o nordeuropeo, dimostrando che è possibile utilizzare un immaginario globale anche per raccontare sentimenti e ideali rattrappiti tutti italiani. L’idealismo de La città di pianura è tutta nell’amicizia virile, nella complicità omosociale, nella marginalità vissuta come unica, possibile scelta di campo e sola postura per impostare una propria personale guida alle ricerche della sopravvivenza. 

In barba a qualunque posizione ancora ancorata a una perduta forma di impegno politico, più che mai negato in un presente troppo rammollito, c’è perfino un tedesco che dà per scontato che i suoi connazionali siano “americanizzati” e al contempo chiosa però: “Da voi italiani, invece, mi sarei aspettato più Resistenza”. Ai protagonisti, però, non restano che i ricordi, che cullare la propria nostalgia attraverso le memorie dell’ultimo decennio di spensieratezza prima della fine delle illusioni e delle utopie, oggi rivalutabile come una perduta età dell’innocenza. 

Troppo vecchi per crescere

Negli ultimi anni, il racconto delle provincia meccanica molto in voga ormai quasi quarant’anni fa (“Chi cazzo ha inventato il cocktail di gamberetti?” – “Qualche bollito negli anni ‘80”) si è in parte perduto, mentre La città di pianura ne ripristina direttamente le modalità risalendo al magistero di Carlo Mazzacurati, al suo farsi cantore di miraggi impossibili da coltivare in un orizzonte magari asfittico e marginale, in cui tutto pare livellarsi all’orizzonte piatto del paesaggio, ai suoi grigiori e all’inevitabile richiamo alla solitudine che pare costantemente convocare, specialmente per degli uomini che ormai sono irrimediabilmente “troppo vecchi per crescere”.

Questa riflessione sul godimento consunto che deriva da piccoli piaceri quotidiani passa anche da un inevitabile discorso capitalista che scomoda la teoria dell’utilità marginale decrescente, in virtù della quale il giovamento percepito per il bene consumato decresce man mano che il consumo di quel bene aumenta. Per cui il piacere del bere si dilata all’infinito nel prossimo bicchiere, promettendosi che sia l’ultimo, perché nulla può in realtà annullare il piacere dell’alcol e le birre analcoliche non potranno mai avere lo stesso sapore di quelle vere. “La voglia di bere vino non si esaurisce mai, e non ha niente a che fare con la sete”, dirà eloquentemente Carlobianchi.


Per Sossai, nato nel 1989 a Feltre, in provincia di Belluno (che però secondo il film in realtà “non esiste”), si tratta di una ricognizione della provincia della sua regione che abbraccia inevitabilmente anche un’idea di attraversamento geografico del confine, come nelle due Germanie e un po’ alla stregua del Wim Wenders di Nel corso del tempo, altra piega di paragone col quale La città di pianura si confronta, evocando anche una pastosità nostalgica accarezzata tattilmente attraverso le riprese in 16 e 35mm.

Sembra esserci perfino un residuo di morale spielberghiana nell’impossibilità di uscire dal piccolo loculo in cui la vita di provincia ci rinchiude, continuando però a fantasticare sulle belle case dove prima o poi si entrerà: sarebbe, come si dice non a caso in uno dialoghi, come “trasferirsi ai confini della realtà”. L’idea di utopia portata avanti è anche in qualche modo e nonostante tutto giocosa, infantile, come un’ultima e disperata proposta di reciproco accudimento, ma con la consapevolezza che “la pet therapy la fanno le persone con le bestie e non le bestie con le persone”.

Ma cosa rimane davvero, dei personaggi, al termine della visione? Si potrebbe dire che resta anzitutto un piccolo ritratto minimalista e impressionista delle loro traiettorie personali e identitarie, come se La città di pianura sapesse cogliere nel qui e ora delle relazioni tra i personaggi, dando alle bevute tra amici le sembianze di continue e nel loro piccolo incredibili scoperte sulla vita: squarci di umanità rabberciata, non riconciliata, non allineata, proprio per questo ancora oggi poetica.

 

*Critico cinematografico siciliano classe 1993, Davide Stanzione è una firma assidua del mensile Best Movie, co-fondatore del dizionario di cinema online Longtake e membro del comitato di selezione del Torino Film Festival. Si occupa di curatela e programmazione per festival e sale d’essai, tra cui il Sulmona International Film Festival e il CineTeatro Baretti di Torino. Ha scritto, recensito e intervistato per varie testate di settore, pubblicando anche saggi all’interno di monografie e riviste dedicate a registi. Ha ideato un percorso formativo sul linguaggio filmico e sulla critica cinematografica per studenti liceali, ed è stato co-curatore del SiciliAmbiente Film Festival e moderatore dei dibattiti al festival Roseto Opera Prima.
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