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Nomi, cose, città… di pianura. Un inventario

L’arrivo al cinema de Le città di pianura, il film di Francesco Sossai, è il pretesto per recuperare un gioco che si fa da sempre.

Di Alberto Fassina*

È uno di quei giochi che si fanno da sempre, quando da una lettera si elencano, appunto, nomi, cose, città, e così facendo, in qualche modo si definisce il proprio mondo, quello che conosciamo e quello che non conosciamo, quello che in altre parole sappiamo che esiste, perché lo abbiamo studiato o semplicemente ce lo hanno raccontato.

Nomi

Le città di pianura di Francesco Sossai, dopo un brevissimo incipit che richiama il sonno, ma forse anche il sogno, si apre, come Piccola Patria di Alessandro Rossetto, con un volo sopra la pianura. Siamo su un elicottero in compagnia del Cavaliere degli Antichi, il  padrone della fabbrica nella quale ha lavorato Primo Sossai, a interpretare “el paron” troviamo Roberto Citran, volto presente in quasi tutti i film di Carlo Mazzacurati

Accanto a lui il manager Lazzaron, un cognome non casuale, che oltre a evocare qualità non particolarmente virtuose, potrebbe richiamare l’architetto Lazzaron presente ne I quindicimila passi di Vitaliano Trevisan, lo scrittore vicentino, prematuramente scomparso, che più di tutti ha saputo raccontare l’asprezza e il processo di distruzione e imbruttimento di questo territorio. “Ma l’architetto Lazzaron, il nostro amico d’infanzia, non era certo come noi. Lui era, ed è, un uomo assolutamente pragmatico, un uomo pratico, un uomo che nella vita tende a costruire, così lui stesso si definiva, a costruire verso l’alto, diceva, perché ormai di spazio ce n’è poco” .

Nomi: Rossetto, Mazzaccurati, Trevisan, ma anche Sossai che sembra partire da qui per trovare una sua (nuova) via per raccontare questa terra, che fino a poco tempo fa era scenario del “miracolo del nordest”. Sossai, da questi padri o da questi fratelli maggiori, prende subito le distanze offrendo un racconto e una visione che riconosce uneredità e se ne allontana portandoci, nella sequenza dei titoli di testa, in territori che appaiono come delle strade perdute, alcoliche e analogiche.  Le città di pianura è girato in pellicola 35 e 16 mm, e in questo senso non ci sembra casuale la visita al Memoriale Brion che anticipa il finale, evocando ancora un altro imprenditore,  Giuseppe Brion, che con la sua azienda Brionvega ha contribuito non solo all’economia del nostro Paese, ma anche alla diffusione della televisione, prima minaccia di morte con la quale ha dovuto fare i conti il cinema.

Cose e Case

“Lode alla noia
Per amnesia mi cambierà
Chi non cerca trova” 

cantano i Laguna Bollente, nel brano Campari Noia presente nella colonna sonora del film. 

Il cuore de Le città di pianura è la storia di un incontro non cercato, quello tra Giulio (Filippo Scotti) e gli amici di una vita, Doriano (Pierpaolo Capovilla) e Carlobianchi (Sergio Romano). Giulio viene tirato dentro alla storia senza troppi se e senza troppi ma, come se Sossai ci volesse dire che certe cose al cinema accadono perché c’è stato altro cinema, e Il sorpasso di Dino Risi, per un autore che suona le note della commedia amara (e anche un podisperata), è unopera destinata a lavorare sotto traccia. 

Giulio è uno studente di architettura, nel suo viaggio accompagnato da questo aggiornamento alcolico de il Gatto e la Volpe, si fermerà spesso a guardare case, cancelli, parchi e giardini.“Guardo le case con la porta, le finestre, la luce dentro, penso che io non ci entrerò mai in quella casa, una volta non ci pensavo, una volta pensavo: io entrerò in quella casa, in quella cucina, in quel salotto, in quella camera da letto” dice Doriano in uno dei vari momenti malinconici che punteggiano il film.

Pensando a Le città di pianura viene in mente un luogo specifico dogni casa. In quelle case, che spuntavano come funghi nella pianura padana, con le mura perimetrali in cemento grezzo, perché forse erano finiti i soldi per l’intonaco o forse perché il colore è un vezzo e questa è terra di risparmiatori, in quelle case ormai abbandonate a favore di confortevoli palazzine modulari color pesca, cerano spesso soffitte e cantine.

La pianura di questo film sembra essere diventata la cantina del nostro Paese.

Le grandi città hanno i loro salotti buoni, dalle pendici delle montagne si scende verso sud, dall’autostrada si vedono campi coltivati, girasoli, grano, pomodori, fazzoletti colorati, belli come terrazze ben tenute, ricchi come cortili curati da buone mani, e poi c’è sempre cibo in questo Paese come una gran cucina fornita che ci parla di abbondanza. E mare e montagne, luoghi che accompagnano il sonno, come accoglienti camere da letto.

Ma la pianura, quando non è coperta dalla nebbia, rivela luoghi incongruenti, fatti di case e cose, un’enorme cantina nella quale si sono abbandonati strumenti di lavoro che servivano e che ora non servono più. Scatoloni come capannoni, vuoti, pieni, poco importa, troppa fatica aprirli per guardarci dentro. 

Sossai con il suo film si muove in questo spazio buio, illuminato da neon scarichi e lampadine consumate.

Poi succede, che per tutta una serie di motivi, in quelle cantine bisogna entrarci, si fanno inventari e repulisti,  e ci si accorge che tutti quegli oggetti evocano un tempo e una vita che è stata parcheggiata, ma che allo stesso tempo può tornare buona. Doriano e Carlobianchi abitano lì.

In quella terra si può incontrare un tedesco che vuole vedere l’Italia prima che gli italiani la distruggano definitivamente. “Sei arrivato in ritardo” gli dice Carlobianchi con quella disillusione che esce così facile quando si è sbronzi da ore.

“Certo che negli anni novanta stavamo veramente da Dio”, sintetizzano i due amici, mentre ora il Conte Bugnello, preoccupato per l’autostrada che raderà al suolo il suo giardino ottocentesco, ribadisce che: “di questa terra non rimarrà più nulla, solo un’enorme infrastruttura, solo modi di muoversi da un posto all’altro, e nessun luogo dove andare”.

Un pensiero che Doriano e Carlobianchi hanno fatto loro già da anni, almeno dal 2008, con la grossa crisi che li ha messi fuori dai giochi e li ha portati a viaggiare tra un bar e l’altro con una Jaguar, frutto dei loschi guadagni di un tempo, che si tengono stretti e che in qualche modo rappresenta il loro unico modo di stare in quel mondo.

“Avevate scoperto il segreto del mondo e non ve lo ricordate? Ma è il segreto del mondo mondo o del vostro mondo” chiede Giulio. 

“Che differenza c’è?”, è la risposta. Semplice. Vera.

Città…di pianura

Il canone del film di viaggio prevede diverse tappe. E in questa storia nelle tappe si stappano bottiglie e si beve: dalla birra analcolica, al Calimocho, dal Gin Tonic, al caffè corretto prugna, non manca lo Spritz e tanto meno caraffe di vino della casa, naturalmente saltano fuori bicchieri di grappa fino ad arrivare a un Daiquiri riveduto con due intriganti gocce di Pernaud. Sossai evita alcuni cliché tipici di questa terra. Mai un filo di nebbia, nessun riferimento al cattolicesimo di facciata e all’ipocrisia tanto presente nel “Signore e Signori” di Pietro Germi, mancano le bestemmie (sempre difficili da trovare al cinema), ma per quanto riguarda il ritratto del Veneto e del Friulano gran bevitore, ci si trova perfettamente allineati all’immaginario. Perché l’alcol nel nordest è tutto fuorché un cliché (al contrario delle miracolose piccole medie imprese, tanto presenti nella retorica degli anni ottanta in poi), l’alcol è presente in modo talmente concreto da sfidare le regole dell’economia che vede nella teoria dell’unità marginale una legge economica inattaccabile da tutti i punti di vista, tranne da quello dell’ “ultimo bicchiere”, perché come Carlobianchi e Doriano ci spiegano: “la voglia di bere l’ultima non si esaurisce mai perché va al di la della sete”.

E di leggi come questa Doriano e Carlobianchi ne hanno più d’una. “Non c’è mai un’altra volta” ricordano all’amico Giulio, “Non smetto perché non ho mai cominciato”, “Siamo troppo vecchi per crescere”, ma a questa saggezza alcolica risponde Giulio che compensa la sua assenza di esperienze adulte con la conoscenza dei libri e la curiosità che lo accompagnerà in questo viaggio al termine di più notti. 

È lui che cerca di dare un senso, non alla vita, ma almeno ai luoghi che la contengono. “Possibile che con sapete un cazzo di dove vivete?”, dice ai suoi nuovi amici. Fino a offrire quel poco che lui sa del mondo.

“È un capriccio, un paesaggio che non esiste, un paesaggio immaginario, qui si vede che volevano unire il paesaggio montano con quello lagunare senza tutte quelle città di pianura lì in mezzo” dice commentando un affresco che diventa non locandina, ma titolo del film.

Mentre, proprio sulla locandina con cui il film si presenta, vediamo i tre personaggi all’interno del Memoriale Brion.


“La pesantezza dei muri in cemento armato rimanda costantemente alla gravità della morte. Mentre gli spazi vuoti, gli specchi d’acqua, rimandano ad una condizione di leggerezza quasi eterea.

 

Il terreno è rialzato di 85 cm per permetterti di vedere la pianura da un punto di vista diverso. “Non è una tomba è più una macchina per elaborare il lutto”. 

C’è qualcosa di fantastico in quel luogo così perso in questa terra perduta. Ed è quasi una coincidenza evocativa, che Denis Villeneuve abbia deciso di girare proprio lì diverse sequenze di “Dune-Parte Seconda”. Così, a distanza di un anno, l’opera di Carlo Scarpa viene portata sul grande schermo, in Italia e nel mondo intero, in due film che hanno due forme di paesaggio nel titolo. 

Così facendo, sul pre-finale Sossai tira le fila del suo racconto.

Dentro quello spazio Giulio, come Paul Atreides nel deserto, sembra essere a proprio agio, è un luogo che ha conosciuto sulla carta e che ora esiste veramente, dentro un contesto, dentro un paesaggio.

“Me la immaginavo diversa, lavevo sempre vista rappresentata in pianta e ora che vedo gli spazi, i volumi, il paesaggio, non so come dire, ma è molto più bella nella realtà”.

Così si torna a ragionare sulla fine e sulla trasformazione delle cose. C’è un tempo nel quale dentro una stanza si sono letti libri, dentro ad un cinema si sono visti film e poi in una notte, perché la notte è il tempo giusto per le scoperte, si incontra qualcuno che ti ricorda che alcune immagini, alcune storie sono frutto dell’immaginazione, sono modi per sfuggire alla realtà, che su un affresco le “città di pianura” le puoi anche cancellare, puoi anche far stare assieme la laguna con la montagna, ma finito il capriccio, terminato lo scherzo, girando le spalle a quel finto paesaggio ti trovi davanti alla vita, che raccontata da altri non sembrava male, ma vissuta in prima persona, potrebbe anche essere meglio, a condizione che ci sia sempre un ultimo bicchiere da bere.

*Alberto Fassina, laureato in Scienze della Comunicazione, giornalista pubblicista da più di vent’anni. Nel 1998 inizia a scrivere di cinema per il mensile DUEL. Nel 2006 cura la pubblicazione “Il viaggio dell’eroe – Cinema e riti di passaggio” (ed. Falsopiano). Collabora con i principali quotidiani del gruppo Nem (Il Mattino di Padova, La Tribuna di Treviso e La Nuova Venezia). È tra i soci fondatori di Parthénos, distributore cinematografico che ha avuto il merito di portare in Italia gli ultimi film di Nuri Bilge Ceylan, e altri titoli significativi come “Ida” di Paweł Pawlikowski, “Come pietra paziente” di Atiq Rahimi, e i film di Robert Guédiguian “La casa sul mare” e “Gloria mundi”. Attualmente è direttore del MultiAstra di Padova, storica sala d’essai della città, punto di riferimento per tanti appassionati di cinema.
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