Guest Post
Perché in The Elephant Man c’era già tutto David Lynch

Opera seconda di David Lynch e già un capolavoro, The Elephant Man torna al cinema il 16-17-18 giugno restaurato in 4K

Di Carlo Giuliano*

David Lynch è morto, lunga vita a David Lynch. Il regista che più si è fatto interprete dell’onirico, dell’irrazionale e dell’inspiegabile ci ha lasciato all’inizio di quest’anno, portandosi dietro il cordoglio di un lutto collettivo. Ogni anno qualcuno se ne va e lascia con sé un vuoto nel cuore dei cinefili. Ma la scomparsa di David Lynch ha generato un dolore condiviso che poche altre volte abbiamo visto nella storia recente. Ciascuno ne parlava come si parlerebbe di un parente prossimo. Più che un genio, avevamo perso un padre. 

The Big Dreamer è la rassegna nata dalla collaborazione fra Lucky Red e la Cineteca di Bologna per omaggiare il padre scomparso e riportare al cinema tutta la sua filmografia. Inaugurata il mese scorso, si protrarrà per tutto l’anno e anche oltre, fino al 2026. E dopo i primi due appuntamenti con Cuore selvaggio – il film vincitore della Palma d’Oro nel 1990 – ed Eraserhead – La mente che cancella – folgorante e impenetrabile opera prima di Lynch risalente al 1977 – ora è il turno del film che l’avrebbe consacrato al pubblico più vasto. The Elephant Man, uscito nel 1980, sarebbe stato il primo di tanti capolavori. 

Presi in coppia, i primi due film di David Lynch racchiudevano già tutto il suo cinema, le sue ossessioni, ciò di cui avrebbe continuato a parlare per il resto della sua carriera. Eraserhead e The Elephant Man sono film complementari, fra loro completamente distanti nello stile e nell’impostazione, ma portatori di alcuni dei temi più ricorrenti dell’universo lynchano: da un lato l’onirico e l’inspiegabile, dall’altro il mostro e il diverso. Da un lato l’incomprensibile, dall’altro l’incompreso per eccellenza.

L’uomo elefante

Se riletta alla luce dei suoi film successivi, la scelta di un soggetto come quello di The Elephant Man potrebbe sembrare atipica per Lynch. Innanzitutto perché è una biografia, uno dei pochi film di cui Lynch non firma anche la sceneggiatura. Tratto dai saggi The Elephant Man and Other Reminiscences di Frederick Treves e The Elephant Man: A Study in Human Dignity di Ashley Montagu, racconta la storia vera di John Merrick (al secolo Joseph Merrick), paziente affetto da Sindrome di Proteo e vissuto nel pieno splendore dell’Età Vittoriana.

La Sindrome di Proteo verrà identificata solo nel 1971, circa un secolo dopo il tempo di John Merrick, che viene quindi esposto al pubblico ludibrio negli umilianti freak show londinesi (sarebbero stati chiusi nel 1886). È in uno di questi freak show che fa capolino il Dottor Frederick Treves, spinto dalla curiosità scientifica di incontrare – e possibilmente curare – questo giovane di appena 21 anni reso irriconoscibile da malformazioni ed escrescenze tumorali cosparse su tutto il corpo. 

Sottraendolo allo sfruttamento e agli abusi del suo “padrone”, Treves lo prenderà sotto la sua ala e lo farà ricoverare presso il London Hospital. Dovrà combattere con le ritrosie del personale, spaventato dall’aspetto di Merrick, e della dirigenza, contrariata dall’idea di occupare un letto per un paziente considerato incurabile. Ma proprio Treves riuscirà a vincere le divergenze e il pregiudizio, scoprendo in Merrick una cultura e una sensibilità estremamente raffinate. Da fenomeno da baraccone, Merrick verrà quindi accolto nei più eleganti salotti della società vittoriana, mettendo però in luce una profonda contraddizione dietro questa forma di carità.

L’ipocrisia borghese

Con The Elephant Man, Lynch riprende un soggetto di cui Tod Browning  era stato iniziatore e capostipite, nel lontano 1932, con Freaks. Il tema della mostruosità, intesa non come giudizio effettivo ma piuttosto come pregiudizio sociale, è certamente il nucleo fondativo del film di Lynch. E la paura per il mostro, intesa come paura per l’inspiegabile e per ciò che è diverso, ritornerà più e più volte nel cinema di Lynch, ma sempre al fine di ribaltare lo sguardo, di ricollocare la mostruosità stessa.

Perché fin dall’inizio appare chiaro che John Merrick non è affatto un mostro, a differenza delle folle che accorrono per deriderlo come un animale in gabbia. David Lynch compie qui il più autoevidente dei ribaltamenti, ma non per questo meno potente. Il senso è chiaro: il mostro non è in ciò che si vede, ma in ciò che si mantiene celato allo sguardo. Non nell’aspetto ma nell’anima, nella morale. Lo stesso ribaltamento compiuto da Socrate rispetto all’antico concetto greco della kalokagathia, secondo cui chi era brutto esteriormente lo era anche internamente e moralmente. Persino Frederick Treves arriva a domandarsi se non stia replicando, con Merrick, ciò che il suo padrone faceva nei freak show, semplicemente sostituendo il tipo di pubblico pagante. John Merrick viene accolto dall’alta società e trattato con tutti i riguardi, ma sorge il dubbio che tutte quelle attenzioni non rappresentino solo un’altra forma di pregiudizio assistenziale e fintamente benevolo.

In questo, il contesto della società vittoriana è azzeccatissimo. Erano gli anni della Seconda Rivoluzione Industriale, di questa fede incrollabile nel progresso tecnologico, medico e scientifico cui infatti Lynch fa riferimento in una serie di intermezzi presenti nel film. L’Inghilterra della Regina Vittoria – di cui Merrick, nella realtà dei fatti, fu uno dei favoriti – si percepisce moralmente evoluta, il cuore pulsante di un progresso di civiltà che ben presto investirà il resto del mondo. Ma se c’è una cosa che la Rivoluzione Industriale prima (e il ‘900) poi ci hanno insegnato, è che raramente questo grande balzo in avanti nel campo scientifico si è tradotto in un’evoluzione della morale. Come avrebbe detto Charlie Chaplin in un monologo rimasto famoso: “Pensiamo troppo e sentiamo poco”.

Frankenstein 1980 

The Elephant Man è un capolavoro per tantissime ragioni. Partendo dal cast, che avrebbe consacrato le incredibili interpretazioni di John Hurt e Anthony Hopkins, rispettivamente nei panni di John Merrick e del Dr. Treves. Certo, dal punto di vista visivo e narrativo, The Elephant Man potrebbe apparire come uno dei film “meno lynchani” in tutta la filmografia di David Lynch. Il bianco e nero, la trama lineare, l’impostazione classica: The Elephant Man è un film del 1980 che non vuole sembrare affatto figlio della sua epoca.

Piuttosto si rifà all’espressionismo tedesco di Fritz Lang – da Metropolis a M – Il mostro di Düsseldorf – e a certi Monster Movie degli Anni ’40. In un certo senso, The Elephant Man è la rivisitazione moderna del dramma di Frankenstein, con il Dottore e la sua creatura incompresa e profondamente tragica. Esattamente come insegnava il romanzo di Mary Shelley e i molti adattamenti cinematografici che da esso sono stati tratti, il film di Lynch intende affermare che il mostro è solo negli occhi e nell’anima di chi guarda. Che è piuttosto la paura per il mostro, a generare i veri mostri delle nostre società. E per questo The Elephant Man, film del 1980 che non sembra affatto del 1980, è in realtà opera modernissima e sempre attuale.

Stupirà sapere che dietro alla produzione c’era un insospettabile commediante come Mel Brooks, che pare non volesse apparire nei crediti del film proprio perché non fosse scambiato per una delle sue commedie e non spostasse l’attenzione dall’incredibile regista che l’aveva diretto. Anche Mel Brooks aveva visto Eraserhead, e si era definitivamente convinto che David Lynch fosse l’uomo giusto. Però, proprio nell’estrema distanza di generi, non si può non percepire The Elephant Man come la traduzione in chiave drammatica di quanto Mel Brooks aveva portato su schermo, nel 1974, con Frankenstein Junior.

Insomma, The Elephant Man rimane ancora oggi un film dalle molteplici chiavi di lettura, da studiare e ristudiare. E quindi da vedere o rivedere al cinema per questa tre giorni evento dal 16 al 18 giugno.

 

*Nato a Roma nel 1999, critico cinematografico e creator passato per web, cartaceo, social media, televisione, radio e podcast. La prima esperienza a 15 anni come membro di giuria per la XII Edizione di Alice nella Città. Dal 2019 si forma presso il mensile cartaceo Scomodo, di cui coordina anche la rete distributiva in tutta Italia. Nel 2022 svolge un master in podcasting presso Chora Media, cicli di lezioni nei licei con il Museo MAXXI ed è il vincitore del Premio CAT per la critica cinematografica. Ha collaborato con le pagine del Goethe-Institut e del Sindacato Pensionati CGIL. Dal 2021 scrive stabilmente per CiakClub, di cui è Caporedattore e principale creator.
Potrebbe interessarti

Il Film

Londra, seconda metà dell’Ottocento. A causa di una malattia molto rara che gli ha dato sembianze mostruose, il giovane John Merrick viene esposto come “uomo elefante” nel baraccone di Bytes, un alcolizzato che campa sfruttando la sua mostruosità e lo tratta come un fenomeno da baraccone. È qui che Merrick viene scoperto dal dottor Frederick Treves, un chirurgo del London…

Maternal di Maura Delpero
GUARDA ORA

Newsletter

Iscriviti alla newsletter per tutti gli aggiornamenti: le nuove uscite, i film in arrivo, gli eventi, le anteprime esclusive e gli incontri in sala

Articoli più letti

©2025 LUCKY RED S.r.l. tutti i diritti riservati | Privacy Policy | Etica aziendale
Largo Italo Gemini, 1 00161 Roma T. 063759441 F. 0637352310 info@luckyred.it

Stiamo arrivando!

Iscriviti alla newsletter per tutti gli aggiornamenti: le nuove uscite, i film in arrivo, gli eventi, le anteprime esclusive e gli incontri in sala

Newsletter

Iscriviti alla newsletter per tutti gli aggiornamenti: le nuove uscite, i film in arrivo, gli eventi, le anteprime esclusive e gli incontri in sala