Dal maestro Steven Soderbergh, Presence è un horror tutto in soggettiva girato all’interno di una casa. Ora al cinema.
Steven Soderbergh è uno dei più grandi cineasti statunitensi in attività. Period. Può succedere che il pubblico mainstream ne dimentichi il nome, se messo a confronto ai più altisonanti Scorsese, Tarantino e Spielberg. Ma di certo non ne dimenticherà i cult: Sesso, bugie e videotape (1989), Erin Brockovich (2000), Ocean’s Eleven (2001) e poi ancora Traffic, il profetico Contagion e il bellissimo dittico sul Che con Benicio Del Toro. Soderbergh è stato e rimane regista poliedrico e mai uguale a se stesso, capace di sperimentare e compiere piccole rivoluzioni di genere, a offrire visioni nuove anche nel più inflazionato dei soggetti. Una casa infestata, per esempio.
È lì che si trasferiscono Chloe (Callina Liang) e la sua famiglia, composta dalla madre Rebekah (Lucy Liu), il padre Chris (Chris Sullivan) e il fratello maggiore Tyler (Eddy Maday). Chloe si sta riprendendo da un trauma, dopo che due sue amiche sono morte per overdose in circostanze non del tutto chiarite, e quel trasferimento dovrebbe aiutarla a superare il lutto. Ma ben presto si rende conto di essere perseguitata da una presenza, e si convince di averla già conosciuta.
Presence, ora al cinema, è un horror funziona quasi come un thriller investigativo, con nuove domande e misteri ad attendere dietro ogni angolo. Ed è un’opera girata interamente in POV dalla soggettiva del fantasma, che il Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani ha designato come Film della Critica con la seguente motivazione: «Presence potrebbe sembrare un esercizio di stile: un thriller giocato sulla soggettiva e il piano sequenza, sull’idea di un unico punto di vista misterioso, e sulla fluidità dei movimenti di macchina. Ma, al di là della innegabile maestria di Soderbergh, il film è anche uno straordinario lavoro sui confini labili tra i piani temporali, tra presenza e assenza, visibile e invisibile, in una teorica identità dello sguardo. Cioè, l’essenza del cinema. Fino a suggerire un’altra inquieta prospettiva: e se i veri fantasmi fossimo “Noi che guardiamo”?».
Per prepararvi a questo “sguardo nuovo”, ecco una serie di film da tenere in considerazione quando andrete a vedere Presence, per comprendere la piccola rivoluzione compiuta da Soderbergh.
Quando uscì nel 1999, Il sesto senso rappresentò un film spartiacque, e per varie ragioni. Era l’ultimo anno di un secolo che, in termini di cinema del soprannaturale, aveva dato tanto, e non sembrava potesse regalare nuove sorprese. Dall’altro, il film si riproponeva (o quantomeno ebbe il merito) di inaugurare un nuovo millennio di cinema horror d’autore, e infatti lanciò il nome di M. Night Shyamalan. Nella sua opera terza c’era già tutto del tono e degli elementi più rappresentativi della sua filmografia, a cominciare da un finale che sconvolse un’intera generazione. Bruce Willis interpreta uno psicologo infantile che, dopo una violenta aggressione da parte di un suo vecchio paziente, si trova a seguire un bambino (Haley Joel Osment) dotato della capacità di vedere i fantasmi. Senza anticipare troppo, Il sesto senso è uno di quei cinque o dieci film in tutto di cui si ricorderà per sempre il twist ending finale, costruito con pazienza e meticolosità grazie a una narrazione inquietante e misteriosa in cui Shyamalan è maestro.
Dopo Il sesto senso, venne The Others. Che il film di Alejandro Amenábar avesse tratto ispirazione diretta dal twist ending di Shyamalan è cosa quantomeno probabile, ma lo shock fu comunque spettacolare, e il pubblico non l’avrebbe più dimenticato. Perché se non è poi così raro, nel cinema, che un personaggio scopra di essere qualcun altro o qualcos’altro, meno comune che un personaggio scopra di essere l’opposto di ciò che pensava. Un ribaltamento completo, questo fu The Others. Una Nicole Kidman da brividi interpreta Grace, madre con due figli che vive in una grande casa avvolta dalla nebbia, in attesa che il marito torni dalla Seconda Guerra Mondiale. Nella casa vigono strane regole, Grace è paranoica, i figli non possono essere esposti alla luce del sole e i domestici si comportano in modo strano. Grace è convinta che la casa sia infestata ma, come sempre nel gioco degli specchi, potresti essere tu il riflesso nella realtà di qualcun altro. Distribuito all’epoca da Lucky Red, il film di Alejandro Amenábar rimane l’horror d’autore per eccellenza sulle case infestate.
Negli ultimi mesi si è fatto un gran parlare di “piano sequenza”, dopo l’enorme successo di Adolescence e i suoi episodi girati in piano sequenza unico (cioè senza stacchi, neanche “invisibili”). Ma il piano sequenza è semplicemente qualunque porzione di film che intercorre fra uno stacco e l’altro. In altre parole, ogni film è composto di innumerevoli piani sequenza; la particolarità è quando ce n’è uno soltanto. Il russo Aleksandr Sokurov ci aveva pensato già nel 2002, con Arca russa. Un film da 99 minuti girato interamente in soggettiva, in quattro tentativi, ma al costo di una preparazione millimetrica e monumentale: 4.500 persone, tra cui 867 attori, 3 orchestre e 22 assistenti alla regia. Ambientato nel Palazzo d’Inverno di San Pietroburgo (ma girato presso l’Ermitage), Arca russa è una sorta di tour guidato attraverso la storia russa, dall’epoca degli Zar ai giorni nostri. Non è propriamente un film sui fantasmi, ma è un film di fantasmi, come sfogliare un album di fotografie in cui sono tutti morti, visitatore compreso.
Direttamente dall’epoca d’oro degli horror targati A24, A Ghost Story (tradotto in italiano come “Storia di un fantasma”) è il primo film a segnalare David Lowery come giovane autore da tenere d’occhio, nel panorama dell’indie americano. Fra alti e bassi, questa piccola perla commossa con protagonisti Casey Affleck e Rooney Mara rimane il suo colpo migliore. I due interpretano una coppia che si trasferisce in una casa a Dallas, in Texas, ma ben presto il marito muore in un incidente e diventa un fantasma. Incapace di continuare a vivere in quella casa, la moglie ora vedova lascia un biglietto nell’intercapedine di un muro. Famiglia dopo famiglia, il fantasma cercherà di recuperare quel biglietto per poter passare oltre. A Ghost Story è esperimento molto peculiare, perché da un lato riprende l’estetica più classica del fantasma con il lenzuolo in testa e i buchi sugli occhi, dall’altro non ha niente del classico film sui fantasmi. È cinema intimista sul trapasso e l’elaborazione del lutto, anche il proprio. E se chiedete a me, è il miglior film da far vedere a un bambino che abbia paura dei fantasmi. Lo aiuterà a capire che quando accendono le luci a intermittenza o lasciano le porte aperte, forse è perché siamo noi, ospiti sgraditi in casa loro.
C’è sempre lo zampino di A24 dietro a quello che è considerato uno dei debutti più folgoranti degli ultimi anni, nel panorama horror e non solo. E c’era proprio Lucky Red dietro la distribuzione, in Italia, dell’opera prima di Ari Aster, cui sarebbero seguiti Midsommar (2019), Beau Is Afraid (2023) e l’Eddington di prossima uscita. Più che un film sui fantasmi, Hereditary è un film sulle possessioni demoniache. Ma di fatto c’è uno spirito, c’è una famiglia perseguitata e, soprattutto, c’è una casa, riprodotta persino in miniatura. C’è un cast formidabile composto da Toni Collette, Alex Wolff, Milly Shapiro e Gabriel Byrne. E c’è tutto il terrore che Ari Aster poté regalarci e che rimane ancora imbattuto, nel resto della sua filmografia. Assieme a Jordan Peele e Robert Eggers, che hanno fatto il loro debutto come registi più o meno nello stesso periodo e hanno raggiunto un corpus di opere quasi equivalente, Ari Aster ha aperto a una nuova era di cinema horror d’autore. In un certo senso, ha contribuito a ricordare a un’intera, nuova generazione che i film horror d’autore esistono, e sono fra i più interessanti (e inquietanti) del loro genere.
Presence di Steven Soderbergh è uno di quelli, e vi aspetta al cinema.