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Il lavoro triplo e l’eterna insoddisfazione di Zlatan

“Non sono il tipo che vado in giro tutto soddisfatto. Quasi in ogni momento penso ai miei errori”. Zlatan è al cinema! Trova la tua sala qui

Di Nicholas David Altea

Non si diventa campioni in un giorno. Nemmeno in un mese o in un anno. Certo, devono esserci delle doti di base per poter raggiungere alcuni livelli, ma la testa e la mente è necessario siano allineate sulla medesima lunghezza d’onda delle doti tecniche e fisiche. Zlatan Ibrahimović lo dice sempre: “Puoi avere talento, ma la tua testa conta il 50%, e se non ce l’hai non giochi ad alto livello”. È una verità scolpita nella pietra, anzi, nei campi da calcio di mezzo mondo, ma ancor di più nella storia di uno sport dove giovani promesse con immani capacità non ce l’hanno fatta a causa di quell’equilibrio mentale, e sono stati declassati a semplici e dolorosi “what if”, più semplicemente: cosa sarebbe successo se fosse diventato veramente ciò che si era auspicato?

Basta andare a sfogliare le liste dei talenti stilate dalla rivista spagnola “Don Balón” per contarne decine e decine che si sono persi per i più disparati motivi; non solo a causa dei limiti fisici o degli infortuni: al centro di tutto c’è la forza mentale e l’etica del lavoro in allenamento. Una variante che pone un confine netto tra chi è un vero professionista e chi non ci riesce fino in fondo. Il “50%” che dice Zlatan è esattamente quello, ma nella sua esperienza personale ha capito che non bastava per diventare il migliore, bisognava fare più del dovuto. Quel cambiamento mentale, quell’interruttore capace poi di accendere uno stadio intero, si innesta nello svedese anche, e soprattutto, quando conosce colui che sarà il suo procuratore storico: Carmine Raiola, detto Mino, nato a Nocera Inferiore ma trasferitosi in fasce con i genitori ad Haarlem, nei Paesi Bassi.

A colloquio in un ristorante giapponese, l’italiano gli mette davanti agli occhi la dura realtà dei fatti stampata su dei fogli stropicciati e ripiegati in quattro: “Christian Vieri: 27 partite, 24 gol. Filippo Inzaghi: 25 partite, 20 gol. David Trézéguet: 24 partite, 20 gol. Si arriva ai numeri di Ibrahimović, all’epoca ancora all’Ajax: “25 partite, 5 gol. Come ti posso vendere con queste statistiche?” La risposta dello svedese è provocatoria, strappa anche un sorriso ma non affonda: “Se avessi fatto 20 gol anche mia madre potrebbe farmi da agente”. Peccato che Mino Raiola non è tipo da farsi impressionare mentre mangia avidamente il suo sushi. Non gli interessano le Porsche, gli orologi costosi e le giacche di Gucci che possiede Zlatan.

Lui può veramente farlo diventare qualcuno e portarlo in una squadra ancora più importante, ma come prima cosa gli dice: “Devi lavorare il triplo”. E sarà così, perché l’arma che lo porterà fino a 40 anni in una forma invidiabile e una crescita calcistica costante, passerà dal lavoro sul campo e in palestra: “Bisogna crederci. Perché sia possibile bisogna lavorare, fare sacrifici e crederci. Queste sono le parole chiave.

Puoi essere chi vuoi, ma non vuol dire che così raggiungerai i tuoi obiettivi”, ripete spesso l’attacante. Potrebbero sembrare le parole di quei motivatori aziendali da quattro soldi che fanno lavaggi del cervello insensati, ma il suo modus operandi è chiarissimo: “Più mi alleno, meglio mi sento. Dico a me stesso e agli altri: non mollare mai. In altre parole, se non ti arrendi, vinci”. E poi ancora: “Il talento è utile solo quando lo coltivi. Dobbiamo lavorare, lavorare, lavorare. Dobbiamo sacrificare qualcosa. Che cosa è una partita di 90 minuti? Niente, se non lavori ogni giorno per ore”. Sono tutti piccoli mantra potentissimi che riesce a trasmettere ai compagni di squadra, giovani e meno giovani, e che lui non dimentica mai.

Quello che una volta si chiamava training qualcuno lo soprannomina “Zlataning”, scherzando: corde, pesi, piegamenti, palla medica e via dicendo. Ogni epoca di Zlatan è caratterizzata da un tipo di allenamento specifico per evitare sovraccarichi: il corpo cambia e con esso la frequenza e la tipologia delle preparazioni e degli esercizi. Poi a 40 anni inoltrati torna pure la convocazione in Nazionale svedese dopo aver saltato – causa infortunio – l’Europeo 2020 disputatosi nell’estate 2021. Se non avesse perseguito rigidamente questo credo non si avvicinerebbe ai quei calciatori immortali, quei rari “highlander” che attraversano i decenni.

Partendo dalla fine degli anni ’90 con il Malmö e andando avanti, tra Ajax, Juventus, Inter, Barcellona, Milan, Paris Saint-Germain, Manchester United, LA Galaxy e poi ancora i rossoneri con cui, nel 2020, raggiunge un altro record – all’età di 38 anni – con il gol realizzato a Cagliari l’11 gennaio: può dire di aver giocato e segnato ufficialmente in quattro decenni, e aggiungiamo pure che ha praticamente sempre inciso in ogni squadra in cui è approdato. Come può un essere umano in uno sport così deteriorante come il calcio, continuare a essere lì, in alto? Lo racconta lui stesso in molte interviste: “Non sono il tipo che vado in giro tutto soddisfatto.

Quasi in ogni momento penso ai miei errori e alle cose buone che ho fatto, perciò cosa devo migliorare? Non rimango mai veramente soddisfatto”. Lavorare il triplo ed essere sempre insoddisfatti, non è detto che basti per diventare un campione immortale, ma nel caso di Zlatan ha fatto molto.

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