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Intervista
Niente è finito, tutto comincia: un Cinema d’autore e popolare. Intervista a Robert Guédiguian e Ariane Ascaride

Intervista con il regista Robert Guédiguian e la protagonista Ariane Ascaride, aspettando E la festa continua! al cinema.

Di Raffaella Giancristofaro*

Robert Guédiguian e Ariane Ascaride sono il regista e la protagonista di E la festa continua!, nelle nostre sale dall’11 aprile. Fianco a fianco dal 1975, la loro collaborazione cinematografica dura e risplende più o meno da allora. Anche in questo ultimo film hanno come compagni di viaggio gli attori Jean-Pierre Darroussin e Gérard Meylan, più alcuni complici più giovani che si sono affiancati a loro negli ultimi anni: Robinson Stévenin, Lola Naymark, Grégoire Leprince-Ringuet. Il pubblico italiano ha imparato a conoscere questa compagnia di giro con il primo film di successo commerciale, Marius e Jeannette (1997). L’unico loro film, finora, ad aver ricevuto delle candidature ai Césars, nonostante l’accoglienza critica in genere molto positiva che accompagna ogni loro exploit. 

Padre armeno e madre tedesca, classe 1953, di formazione marxista, Guédiguian produce anche i suoi film, spesso ambientati a Marsiglia, nei quali si muove un’umanità solidale, convinta della felicità del dare e dell’infelicità degli indifferenti. In quest’ultimo film, pur nella crisi della sanità, della scuola e in generale della società, della sua capacità di accogliere, i personaggi non vogliono rinunciare alla poesia, alla letteratura, al conforto dell’arte. Coi piedi ben piantati per terra e il cuore, la testa, nell’utopia.

Uscito in Francia lo scorso novembre, E la festa continua! prende spunto da un fatto di cronaca – il collasso di due palazzine inagibili ma abitate, che provocò otto morti a Marsiglia nel 2018 — per poi seguire scelte e riflessioni, anche contraddittorie, di una donna matura, Rosa (Ascaride) e la quotidianità vivace della sua ampia famiglia, tra la memoria di Omero, l’impegno nel teatro popolare, la ricorrenza di immagini sacre e striscioni politici. Anche dentro una chiesa occupata che assomiglia a una comune, dove, mentre si rincorrono urgenze più necessarie, un coro improvvisato fa le sue prove. Un film disseminato di libri e lettori, in cui le parole di libertà dei diari di Rosa Luxembourg incontrano un dipinto di Gabriele Münter (per convenzione nota come compagna di Vasilij Kandinsky) che rappresenta la scelta difficile e solitaria della protagonista. È girato tra le strade e il mare di Marsiglia, illuminate da un sole che fa brillare bicchieri di vino e piccole spiagge, ma anche da una luce, teatrale eppure invisibile, puntata su due amanti non più giovani, a cui non serve la musica, per ballare abbracciati.  

L’occasione d’incontrare Guédiguian e Ascaride si crea durante le anteprime italiane del film, tra un saluto in sala e una conversazione col pubblico, curioso anche di sapere come fanno, loro, a (ri)trovare il coraggio di lottare. Perché E la festa continua! è un film confortante, incoraggiante. 

Partiamo dal titolo del film. Nelle note stampa si dice è stato deciso prima di tutto il resto. 

Ariane Ascaride
È così. Proprio ieri mi sono ricordata che in un film di Robert di qualche anno fa, che in francese si intitola Mon père est ingénieur (uscito in Francia nel 2004, inedito da noi, ndr), i personaggi che Jean-Pierre Darroussin e io interpretavamo avevano una relazione e una volta l’anno si chiedevano: ci fermiamo o continuiamo? Mi ha fatto riflettere sul fatto che il verbo “continuare”, con Robert, è davvero qualcosa che si presenta regolarmente. Cosa “continua” con questo verbo? Mi sono fatta questa domanda.

Robert Guédiguian
È una domanda assolutamente umana, anzi è la condizione umana. Si tratta di scegliere di essere o non essere, di morire o dormire. È decidere ogni mattina di alzarsi e fare in modo che la vita continui. Così la festa continua davvero. L’idea del titolo era legata al desiderio fermo e risoluto di fare un film che finisse bene. Che, come hai detto, fosse incoraggiante. E prima di iniziare a scrivere il film, con Serge Valletti, con cui collaboro ormai da tanti anni, ci siamo detti: questo è il titolo, faremo tutto il possibile affinché il film sia alla sua altezza, anche se poi è venuto un po’ più malinconico di quanto credessi.

È sorprendente che un film così ottimista arrivi dopo Gloria mundi. Cos’è successo, nel frattempo?

A: Penso che Robert, che è arrabbiato e triste ogni giorno per quello che succede nel mondo, a un certo punto si sia detto che non poteva più fare dei film terribili, perché tutto è già terribile attorno a noi… 

G: Sì, anche da spettatore, non riesco più a vedere quel tipo di film troppo aderenti alla realtà.

A: … e credo che la vera resistenza consista proprio nel fare delle proposte: non delle osservazioni, ma delle proposte. Ed è quello che ha fatto.

G: Anche se la situazione è la stessa di Gloria mundi, in E la festa continua! mostriamo che esiste anche un’altra realtà. La scelta è tra fare qualcosa e restare a crogiolarsi nella miseria del mondo. Non sto dicendo che Gloria mundi assumesse quel punto di vista. Lì c’era un personaggio, un po’ un angelo, che osservava gli altri agitarsi e che andava in prigione per salvare il mondo. Una cosa un po’ cristiana. C’è qualcosa di me, in lui, nel suo essere dispiaciuto. Ma comportamenti come questo esistono, non sono esagerati. La cosa che non sopporto, è che quando quel film è uscito in Francia, andando anche molto bene e ricevendo buone critiche, alcuni mi hanno detto che io sarei ingenuo, naïf, il che è un’assurdità! Mi piacerebbe esserlo, ma non lo sono affatto, non lo sono mai stato. Sono astuto, machiavellico, in realtà. In E la festa continua! c’è la volontà di mostrare dei comportamenti buoni. Non sono sereno nel guardare il mondo ma al tempo stesso so che esistono persone fantastiche. Michèle Rubirola (ex sindaca di Marsiglia, ndr), che ha ispirato Rosa, il personaggio interpretato da Ariane, è una donna formidabile: ha lavorato come medico per tutta la vita, ha cresciuto i suoi figli e i suoi nipoti. È sempre stata un’attivista, anche in associazioni che aiutano gli immigrati. Per fortuna le persone meravigliose esistono. Solo che quando le mostriamo al cinema, in Francia, c’è sempre qualcuno — non so come chiamarli, forse degli “amari”, o mezzi intellettuali, persone risentite, incapaci di amare — che dice che questa è una visione ingenua, troppo ottimista, angelica… In realtà io torno sempre all’idea che fare arte vuol dire essere diabolici. E poi, anche se fossi angelico, sarebbe una colpa, un difetto? Io credo di no. 

Nello scrivere il personaggio di Rosa a chi altro si è ispirato, oltre a Michèle Rubirola? Rosa sembra una summa di tanti personaggi “di lotta” che Ariane ha interpretato nei film precedenti, come un omaggio a tutte loro. 

G: Ho chiamato Rubirola per dirle che avrei fatto un film ispirato a lei, che non sarebbe stato però la sua biografia. È stata molto felice di vederlo e lo ha visto solo quand’era finito, senza preoccuparsi di come fosse stata ritratta. Ma in realtà anche in Rosa c’è una parte di me. Che sia maschile o femminile, poco importa. Tutte le voci off di Rosa sono pensieri che avevo annotato sui miei diari, che non erano stati scritti pensando alla sceneggiatura del film, ma che abbiamo adattato dopo. Un diario, incarnato da Ariane. Sono domande che penso possano porsi indifferentemente uomini e donne: sul bisogno di vivere per sé stessi o per gli altri, sulla paura che tutto crolli, quando tutto va bene. Non ci sono cose che trovo specificamente femminili, ma certamente c’è anche un po’ il mio lato femminile. 

A: Non sono del tutto d’accordo. Innanzitutto Robert ha una parte femminile, che è importante, anche se scomoda, perché è difficile conviverci. Ha una grande ammirazione nei confronti delle donne, prima di tutto di sua madre, un tipo di amore molto forte. Sua madre è un personaggio romanzesco e io vorrei che facesse un film su di lei, ma lui resiste all’idea. E d’altra parte penso che in realtà se guardi tutti i film di Robert, non solo quelli che ho interpretato, ma proprio tutti i personaggi femminili, sono attivi, vanno a prendersi le cose. Questo arriva da sua madre, anche se lui non lo dice mai. È stato cresciuto da una donna che ha sempre lavorato rimanendo a casa, ma molto attiva, prendendo decisioni di continuo, mentre il padre, secondo una modalità un po’ arcaica, aveva un lavoro fuori casa. Quindi, nelle relazioni dei suoi film, gli uomini pensano, sono malinconici, si pongono domande, ma restano sempre un po’ bloccati, mentre le donne agiscono.

Il film sembra un manuale di pratica politica, disseminato com’è di indicazioni grafiche, scritte, striscioni, manifesti, volantini, a indicare “la via”, come il titolo del saggio di Edgar Morin che Henri legge in spiaggia. Eppure Rosa è in crisi, indecisa sul candidarsi o meno. 

A: Ma la sua vita è così! Rosa è una persona che ogni mattina può dirti “basta, voglio solo andare al mare, leggere il giornale, mangiare, dormire”… e ogni giorno ricominciare da capo, e un momento dopo può dirti che quella vita non è possibile, che bisogna fare qualcosa. È una dicotomia inimmaginabile…

… che ci fa tornare al senso del titolo.

G: Sì, e con un punto esclamativo. Ma anche all’ultima frase del film, che dice che niente è finito, che tutto comincia. Bisogna affermare senza sosta che niente è finito. Dobbiamo farlo per tutte quelle persone che hanno una fibra, una vena di attivismo, di militanza. L’ho detto anche in altri film: credo che la militanza non si fermi davanti alla porta di casa. Penso che la rivoluzione debba essere culturale. Che se l’idea di rivoluzione novecentesca, del movimento operaio, in parte ha fallito, o non ha ottenuto abbastanza, per i miei gusti, è proprio perché non è stata abbastanza attenta a questa dimensione antropologica. Una rivoluzione comprende tutto: lo vediamo chiaramente oggi, con le questioni sul clima, il femminismo, la transessualità… riguarda un modo di vivere in generale, non è solo una questione di rapporti produttivi in ​​fabbrica. Quest’idea di rivoluzione antropologica, che comunque era presente, è stata spazzata via dalla necessità di lottare per lavorare meno ore, avere meno incidenti sul lavoro, l’elemento sociale e quello economico hanno prevalso su quello culturale. Un film può mostrare più facilmente questa complessità, perché inquadra la carne delle persone, il loro modo di vestire, di parlare, i rapporti che hanno con figli, genitori, amanti e amici. Tutti questi aspetti vanno abbracciati e devono essere continuamente rivoluzionati.

Il film mette in scena con chiarezza questo tipo di militanza: la porta di casa di Antonio (Gérard Meylan), il fratello tassista e comunista di Rosa, è sempre aperta. E ogni volta che qualcuno si presenta alla porta di Rosa, viene accolto. Antonio poi si fa trovare in casa di Rosa in un momento che non sarebbe opportuno, eppure Henri (Jean-Pierre Daroussin) e Rosa lo accettano con una naturalezza estrema, che viene dall’intimità creata da un gruppo di lavoro come il vostro. 

A: Ma questo stare insieme, nella vita, per noi e per i nostri amici, è naturale! Ed è culturale. A casa nostra puoi venire a qualsiasi ora e ti apriremo. A Parigi, invece, prima di presentarti a casa di qualcuno, devi sempre avvisare, telefonare. Per noi è una cosa strana. È l’effetto di una cultura di classe: a Parigi viviamo in mezzo alla borghesia, dato che in Francia quasi tutte le persone che fanno questo lavoro vengono da lì. Quindi abbiamo imparato a comportarci da borghesi anche noi, anche se non viviamo così. E infatti chi viene a casa nostra ci dice sempre: “ah, come si sta bene da voi!”. Ma è così semplice! La gente si annoia e si complica la vita, i rapporti potrebbero essere molto più semplici, sempre nel rispetto reciproco, perché se bussiamo alla vostra porta è perché veniamo a salutarvi, a vedere come state, non per imporci e restare tutto il giorno.

Parlando di familiarità e di un mondo sempre più conflittuale e litigioso, come fate, di film in film, a tenere insieme la vostra famiglia cinematografica, il vostro gruppo di lavoro? Ci saranno anche delle discussioni. 

A: No, mai, ti giuro.

G: Mai, veramente. A volte dobbiamo darci delle spiegazioni, in termini di produzione. Sono pur sempre il produttore, il capo della società di produzione, ma il mio metodo di produzione è collettivo. Quindi parliamo del finanziamento del film, delle notti di lavoro, degli straordinari, ma questo accade più con la squadra tecnica che con gli attori. Ma a parte questa situazione, del tutto normale, direi “amical-sindacale”, per il resto non discutiamo. Cosa più importante, tutti noi, da diversi anni e ancora oggi, vogliamo che tutto questo continui. Due settimane fa ho visto Jean-Pierre Darroussin in un programma alla tv e a una domanda sull’ultima sceneggiatura del mio film, ha risposto: “non faccio il film sulla base della lettura della sceneggiatura. Se Robert mi dice di andare a girare in un certo giorno a una certa ora, girerò e poi si vedrà. Se c’è qualcosa che non mi piace, ne parliamo”. C’è l’idea di far andare avanti questa troupe, qualunque cosa accada.

Una questione di fiducia, di amicizia.

A: Sì, ma è qualcosa di più di questo, è anche una questione di orgoglio. Come posso dirlo? L’orgoglio è bello, a volte, è una qualità da avere, quando hai realizzato qualcosa insieme ad altri. Jean-Pierre lavorerà ad altri spettacoli e ad altri film, così come farò io, ma quel lavoro è qualcosa che è lì, sempre, accanto a me. È la mia storia, è qualcosa che mi consola, che mi dà una forza inimmaginabile. Puoi dirmi quello che vuoi, non mi interessa, perché tutto questo esiste. Io ne faccio parte e questo mi aiuta a vivere, semplicemente. 

L’anteprima del film al cinema Modernissimo di Bologna

A proposito di sceneggiatura: Ariane, mentre Robert scrive, lei non partecipa mai alla scrittura? 

A: No, ho scritto solo una volta, quando avevo avuto l’idea per una sceneggiatura, ma è quello che voglio. Il cinema è un sistema molto gerarchico, ognuno ha il suo ruolo. Dico sempre che siamo un gruppo di criminali. Quando si fa una rapina, perché il colpo riesca tutti devono fare qualcosa di molto, molto preciso. Ciò non significa che io non abbia un punto di vista rispetto a quello che Robert ha scritto. Certo, a volte con Jean-Pierre o Gérard ci confrontiamo sul modo in cui si può dire una battuta.

In una sequenza Rosa sogna suo padre mentre lascia a lei e a Antonio, all’epoca ragazzi, la sua eredità spirituale. Più avanti nel film, dopo aver seguito la rievocazione teatrale che ricorda i morti nel crollo del 2018, Rosa dice a Henri che quello è l’unico modo di fare politica. Il film quindi intende indicare, oltre che un passaggio tra generazioni, anche un nuovo modo di militare? Oppure i metodi sono sempre gli stessi ed è il mondo, ad essere cambiato?

G: Chiariamoci: il conflitto tra le generazioni non esiste, o meglio, esiste solo per la borghesia. Nel mondo contadino non esiste; sì, ci possono essere delle tensioni, sul modo di vivere, sulla sessualità. Ma fondamentalmente, esiste un movimento reciproco di ascolto tra le generazioni, anche quando non sono d’accordo tra loro. In Francia è appena uscito un bellissimo libro di una filosofa ottantenne (Marie-José Mondzain, Accueillir. Venu(e)s d’un ventre ou d’un pays, ndr), che sostiene che l’idea di figlio “naturale” non esiste, ma esiste invece l’idea di adozione: e cioè l’ascolto, l’accoglienza, la comprensione, cose che vanno oltre il legame di sangue. Dice anche con i nostri figli, i nostri nipoti, non ci “ri-produciamo”, ma produciamo qualcosa di nuovo, insieme a chi arriva.  

Una suggestione che nel film deve aver lavorato nello scrivere i personaggi di Alice (Lola Naymark) e Sarkis (Robinson Stévenin) e il desiderio di lui di avere molti figli come risposta al genocidio armeno. 

A proposito di armeni, c’è un ingresso, prima abbozzato, poi corale e impetuoso, di Emmenez moi di Charles Aznavour. Mi ha ricordato la forza di Le femme c’est l’avenir de l’homme, che viene da un poema di Louis Aragon, e in generale delle altre canzoni popolari di Jean Ferrat in Au fil d’Ariane (2014, inedito in Italia). A cosa si deve la scelta di quel brano? 

G: La canzone di Aznavour è entrata subito perché bisognava creare un cuore, un elemento di coesione, qualcosa di popolare che coinvolgesse tutti e che fosse anche cantata da tutti, come nei momenti tra Alice e il coro. C’è un riferimento all’Armenia (emmenez moi au pays de merveilles, portatemi nel paese delle meraviglie, ndr), è un successo internazionale, crea un contatto molto diretto con lo spettatore. 

Nelle note di regia lei afferma con decisione che il cinema d’autore e il cinema popolare possono stare perfettamente insieme.

G: Certamente. Oggi la cosa tragica del cinema d’autore è che è totalmente distaccato dal pubblico. Ci sono due tipi di cinema oggi. Mentre, fino agli anni Settanta, per me ce n’era solo uno. Ovvio che non tutti gli operai andavano a vedere Porcile di Pasolini, ma potevano vedere comunque Accattone o Il vangelo secondo Matteo. Grandi autori, spesso anche complessi, avevano un grosso successo di pubblico. Successi mondiali, come per i film di John Ford, che nessuno oggi direbbe non essere un autore. Oggi c’è una distanza terribile tra il pensiero e il popolo. Dopo aver fatto ventitré, ventiquattro film (e dopo E la festa continua!, ne ha già pronto un altro, ndr) mi chiedo quale sia il punto in comune. Io lo trovo quando il film viene presentato al pubblico, perché è allora che mi rendo conto che il popolo esiste. Molière diceva che non c’è niente di più serio dell’arte di intrattenere e il cinema è anche intrattenimento.

A: Sì, è molto strano. In Francia c’è questa cosa incredibile: se fai un cinema che commuove, che ti fa anche piangere o che ti fa ridere, ma dove dentro dici cose fondamentali, non va bene. Robert non viene mai nominato, ai Césars. Penso che se fosse italiano, spagnolo, tedesco, straniero, sarebbe un dio, in Francia. È una cosa totalmente folle, ma sai, i francesi sono così. Noi siamo troppo calorosi, siamo troppo umani, semplicemente troppo umani.

Mi sembra che, con i dovuti distinguo, E la festa continua! abbia più di un punto di tangenza con Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti. E una battuta di Rosa suona tristemente nota allo spettatore italiano di sinistra: ai compagni che non riescono a mettersi d’accordo sulle liste elettorali, dice: “chiamatemi quando avete finito di litigare”. 

G: Ma è lo stesso anche in Francia! Anche la sinistra francese è così. L’ho messo nel film, e Rosa lo dice. Lo dico da sempre, in ogni occasione, l’ho detto anche in televisione. Ho perfino chiamato al telefono diversi candidati, compreso Jean-Luc Mélenchon, per dirglielo di persona, a voce.

Quindi non resta che ricominciare ad agire nel proprio quartiere? Come si legge nel vostro film: “agisci nel tuo quartiere, pensa con il mondo”?

(insieme)
Assolutamente sì. 

* Raffaella Giancristofaro si è laureata con una tesi sui film di Jane Campion. Critica cinematografica e giornalista professionista, ha scritto per siti e periodici, tra cui Tv Sette, Film Tv, Dvd Cult. Dal 2006 al 2014 ha coordinato le pagine di cinema e home video di Rolling Stone Italia. Dal 2018 fa parte della commissione di selezione documentari per i Premi David di Donatello. Attualmente collabora con Mymovies.it, duels.it e Vivilcinema, bimestrale di FICE – Federazione Italiana Cinema d’Essai. 
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